Winterfylleth e Atavist, due facce della stessa chitarra

“Copio” Zero Tolerance con questo pezzo cumulativo: Winterfylleth e Atavist hanno lo stesso chitarrista (Chris Naughton), due dischi belli in uscita quasi contemporaneamente e “sommate” coprono una grossa fetta del metal estremo che seguiamo.

Sono quindi inciampato quasi per caso (volevo da sempre sentirmi per bene gli Atavist) in degli inglesi, pubblicati da inglesi (la grandissima Candlelight), coperti da una rivista inglese che utilizzo come fonte. Ed erano davvero anni che non leggevo articoli e interviste così tanto di parte, spalmati su due numeri, l’ultimo dei quali coi Winterfylleth in copertina. Mancava solo la redazione dietro fare la ola, senza contare la pubblicità vera e propria, messa lì vicino senza soluzione di continuità. Poi si parla male degli italiani… sarebbe forse il caso di aprire una riflessione più ampia su come “creare” qualcosa mediaticamente anche dalle nostre parti. Il discorso vale soprattutto per i Winterfylleth, che – per quanto suoni buffo – sono quelli con più potenziale commerciale, visto tra l’altro che gli Atavist sono spariti per anni e anni dalla circolazione e avevano la nomea di gruppo di area Khanate et similia (split coi Nadja…), quindi non proprio la roba più vendibile, specie oggi che la moda è passata. I Winterfylleth, insomma, sarebbero gli alfieri (erano decenni che volevo usare la parola “alfieri”) del cosiddetto British Black Metal, movimento finalmente maturo e pronto a invadere la Polonia, in cui troviamo Wodensthrone, Fen e anche i Burial, che non c’entrano nulla con Will Bevan da South London e probabilmente lo stanno cercando per soffocarlo nel suo stesso sangue (Burial, tra l’altro, era anche il primo nome degli inglesissimi Cradle Of Filth, motivo per cui mi sembra a questo punto inevitabile uno split Burial / Burial / Burial).


Zero Tolerance, comunque la si pensi, ha la migliore attenuante dalla sua: The Reckoning Dawn è in effetti ok, dunque alla fin fine ci sta che lassù ne approfittino per far emergere la loro scena. Abbiamo i riff black metal potenti e in un certo senso classici (siamo sullo stesso catalogo degli Emperor, inoltre, se non mi venisse da ridere mentre lo scrivo, non siamo lontani da certi Cradle Of Filth), ma anche la melodia, poi la velocità, i blastbeats, i rallentamenti azzeccati e solenni, arrangiamenti furbi e padronanza tecnica della situazione (i cori, gli archi, qualche passaggio folk o semiacustico ben riuscito, e ci mancherebbe, se conoscete la storia della band). Soprattutto, c’è epica a pioggia, senti che è musica con cui andare in guerra (quanto mi gasa “Absolved In Fire”), quelle “romantiche” di una volta con le lance e i cavalli, non quelle marce, terribili e mortifere coi carrarmati e le bombe dei Marduk. Peccato che, come sappiamo, anche secoli fa fosse tutto una gran merda, ma il senso di dischi come questo non è convertire al sovranismo, bensì aiutarti ad affrontare le difficoltà e a sognare un po’, e devo dire che la missione è compiuta.

Mettere su III: Absolution degli Atavist è invece scoprire quanto Chris Naughton sappia cambiare registro. Con questa band ora suona un death/doom tristissimo, sofferente e autentico, con qualche scelta d’arrangiamento più raffinata: a parte il modo secondo me molto sobrio con cui orchestra i suoi, gestisce molto bene anche gli ospiti, ad esempio Bianca Blezard – presente anche in The Reckoning Dawn – a viola e violino, e la richiestissima Jo Quail al violoncello, che lui aveva già chiamato per un disco dei Winterfylleth e che in questo 2020 appare anche nell’album dei My Dying Bride (sempre secondo la mia personalissima sensibilità, il fatto di avere qualcosa in comune coi My Dying Bride è un segno chiaro dello slittamento avvenuto in questi anni, pur nel contesto dello stesso genere). Massiccio, dolente, melodico, ben pensato e architettato, III: Absolution non sposta orizzonti, ma è un ottimo lavoro.