WINDHAND, Soma

Windhand

Soma è il nuovo album dei Windhand, formazione doom di Richmond (Virginia) strettamente connessa ad altri nomi della locale scena pesante: Alabama Thunderpussy, Cough, Inter Arma…  La band è attiva dal 2008 e attualmente coinvolge i tre veterani Asechiah Bogdan alle chitarre, Dorthia Cottrell alla voce e Garrett Morris alle chitarre, con Parker Chandler (cantante e bassista dei Cough, appena entrato nel gruppo) al basso e Ryan Wolfe alla batteria.

Sin dall’inizio i Windhand hanno fuso il doom d’ispirazione Black Sabbath/Saint Vitus con la psichedelia occulta composta all’ombra dei cipressi delle paludi del Sud, ritmi pachidermici, ossessivi con la ruvidità della distorsione e la voce extra-terrena ma ammaliatrice di Dorthia Cottrell. Dorthia ha una voce unica, blues e spettrale allo stesso tempo, niente a che vedere quelle potentemente melodiche di cantanti come Jex Thoth, Uta Plotkin dei Witch Mountain o Alia O’Brien dei Blood Ceremony. La band, entrata nei ranghi della Relapse, quest’anno sta facendo il botto con uno split devastante con i Cough, l’annuncio della partecipazione alla prossima edizione del Roadburn Festival 2014 assieme agli Inter Arma e con questo secondo album, Soma, 6 tracce per oltre 75 minuti di pesantezza ruvida e dal sapore occulto. Tanto? Forse, ma chi si diletta di doom grezzo e psichedelico, tipo Electric Wizard insomma, coi Windhand ci va a nozze. I cinque continuano il “discorso” accennato nello split con i Cough e costruiscono ballate mastodontiche, nelle quali il suono è assordante e sporco e il timbro delle chitarre è molto cupo e sgranato. La voce spettrale di Dorthia, gli occasionali assoli di chitarra, taglienti come lame, e talora perfino la batteria risultano quasi sfocati, o soffocati dal frastuono di chitarre e basso.

L’album, più o meno, è diviso in due parti. La prima vede in sequenza quattro ballate imponenti, di durata (normale per il doom) compresa tra i sei e i dieci minuti. Poi seguono due suite impegnative di quasi 14 e di oltre 30 minuti. Si comincia con “Orchard”, una ballata, appunto, electricwizardiana in piena regola, ipnotica e cupa, che esalta la magia della voce particolare di Dorthia Cottrell. Dopo un intervallo di rumore drone, durante gli oltre nove minuti di “Woodbine” la band guadagna dinamismo accelerando leggermente il ritmo e moltiplicando – con effetti di riverbero o con voci aggiuntive – il canto, che diventa ancora più etereo e allucinato. Il riff sabbathiano portante, cadenzato e “meandreggiante”, entusiasma ed è carico di groove (sentito chissà quante volte, magari ascoltando i Saint Vitus, ma non conta, perché i Windhand, con le loro particolarità stilistiche, lo trasformano in qualcosa di granitico e volatile nello stesso tempo). La terza traccia, “Feral Bones”, segue più o meno il pattern precedente, con le chitarre rombanti e sporche, quasi sludge. Però il canto echeggiante di Dorthia, qui protagonista indiscussa, è particolarmente melodico e ancora più atmosferico. Non a caso, forse, il brano dopo, chitarra acustica e canto, è melodia allo stato puro, struggente e suggestiva, e conferma il fascino semplice ma irresistibile della Cottrell, anche in assenza del rumore e degli effetti metal. “Evergreen” non è uno di quei semplici intervalli acustici che spesso vengono infilati, a volte anche inutilmente, nei dischi heavy metal. Infatti è (ancora) una ballata dolente di quasi sette minuti, che spezza quella che potrebbe diventare forse monotonia. Rilassa la mente e la prepara al ronzio granuloso del fuzz e al rombo del feedback che aprono la seconda parte di Soma: “Cassock” è una suite dinamica che inizia pesante, ma – come per le onde del mare sulla battigia – qui la potenza viene evocata in modo ciclico e in crescendo, fino all’apice del rumore combinato di chitarre distorte, percussioni e invocazioni. Poi, con un brusco rallentamento, si piomba nelle profondità delle tenebre con una fuga in vero e proprio stile funeral doom, alleggerito dalla levità un po’ spettrale del canto. Anche questa seconda parte cemeteriale ha un suo lento sviluppo in crescendo, con suoni caotici e rumore progressivamente inseriti da complessi pattern della batteria (il rombo assordante del feedback arriva fino al puro noise). Dopo il surge magmatico di “Cossack”, il soffio di vento e la chitarra acustica sommessa che occupano i primi minuti della titanica “Boleskine” sembrano quasi balsamici. Poi riff monolitici e distorti cominciano a tessere una melodia dolente, con minime ma percepibili variazioni di tempo: una litania che sembra rimbombare in uno spazio tridimensionale, oscuro. Su tutto s’innestano assoli di chitarra sgranati ma carichi di groove. Un altro limbo sonoro a base di tocchi delicati di chitarra acustica separa una seconda e ancora più dilatata ondata di sludge mortifero, che andrà pian piano a diluirsi nel nulla.

Soma è un album affascinante ed heavy, forse solo un po’ troppo lungo. Meglio, forse è la lunghezza spasmodica dell’ultimo brano a essere esagerata, dopo quasi 45 minuti di doom-sludge rituale e pachidermico. Mi sarebbe piaciuto anche sentire un altro pezzo epico come “Shepherd’s Crook” (nello split con i Cough), a mo’ di variante allo stile occulto che domina in Soma. Però è anche vero che questo genere di roba lisergica s’ascolta per calarsi in un’esperienza quasi mistica, durante la quale si tende a dimenticarsi del tempo. Che dire, per chi sarà al Roadburn l’anno prossimo, “vivere” i Windhand sarà una bella esperienza.

Riguardo alle nuove uscite del gruppo, sarà suggestione, ma l’entrata di Parker Chandler dei Cough nella band mi sembra coincidere con un aumento della pesantezza. O forse è per un’evoluzione naturale verso suoni più possenti che l’interazione tra queste due band di amici è diventata più stretta. Sempre come nel caso dello split con i Cough, Soma è stato registrato e mixato dal chitarrista Garrett Morris nello studio della band (The Darkroom, a Richmond) ed è forse a lui che si deve la ruvidezza accentuata del suono, reso in maniera efficace ancora più solido, tridimensionale e graffiante. Poi è stata la volta del mastering, curato da James Plotkin.

A differenza di quanto si vede sulle copertine di varie band (nuove) dedite al doom-stoner “retro-psichedelico”, dove disegni lussureggianti sono quasi inflazionati, i Windhand hanno scelto una copertina assolutamente sobria, desolante, quasi da depressive black metal. Un male? No, anche perché i turbini di colore e tenebra arrivano con la musica e l’immaginazione…