Among the Wilderness: quindici anni di Agalloch

Agalloch

Agalloch: un legno soffice e resinoso (Aquilaria Agallocha) dal forte odore aromatico, usato come profumo da alcune popolazioni orientali.

Sono pochi i musicisti capaci di evocare nell’ascoltatore un preciso paesaggio sensoriale, fatto di immagini nitide e melodie sussurrate. Tra questi rientrano senza alcun dubbio gli Agalloch, il cui nome basta già a suggerire un qualcosa di remoto, parole e ambienti che sembrano lontani da qualsiasi collocazione temporale.

Formatosi più di quindici anni fa con un suono ancora difficile da catalogare, nel corso degli anni il gruppo ha saputo costruire intorno a sé una reputazione duratura, rendendosi di fatto una delle realtà metal più raffinate nel panorama internazionale. Il suo è uno stile costituito dalla contaminazione reciproca di più generi, dal black al folk metal primordiale, passando per elementi doom, neo-folk e anche post-rock. A un vero appassionato, però, non bastano pochi semplici termini per classificare il suono degli Agalloch, che di sicuro nasce e si evolve sotto l’influenza dei generi sopracitati, senza però omologarsi completamente. Etichettare il suono della band è tanto inutile quanto compararla ai più svariati nomi della scena metal: quando Dan Tobin, nella sua intervista del 1999 per Earache, chiese a Jason Walton un parere sui confronti che erano stati fatti tra Agalloch ed alcuni progetti affini, il bassista rispose dicendo che la cosa più importante era il non rinchiudere la band in una stretta cerchia di definizioni. Gli Agalloch muovono i primi passi in un contesto metal, certo, ma se ne distaccano come pochi altri. La loro musica va oltre le semplici classificazioni, è qualcosa che dev’essere vissuto e metabolizzato senza restrizioni.

Portland

Il gruppo nasce nel 1995 per volere di John Haughm (chitarra, voce, batteria) e Shane Breyer (tastiere). L’anno successivo arriva Don Anderson (chitarra), mentre Jason Walton (basso) si unisce agli altri dopo la registrazione della prima demo. I musicisti sono giovani (Haughm nel ’96 ha solo ventuno anni) e le esperienze musicali alle loro spalle non sono consistenti; nonostante questo, l’idea di quel particolare suono che li renderà celebri sta già maturando in modo più conscio di quanto si potrebbe credere, tant’è che il cantante ha spesso affermato di aver sempre avuto in mente quello che voleva esprimere sul pentagramma. Resta il fatto che, per un ascoltatore che abbia approfondito a dovere la discografia degli Agalloch, tutto sembrerà molto coerente, dagli esili esordi di From Which Of This Oak fino alla solidità compositiva di Ashes Against The Grain.

Gli Agalloch già dal 1999 si dimostrano una creatura essenzialmente animata dal genio di John Haughm, il quale non si limita solamente ai testi e alle musiche, ma arriva a influenzare anche l’importante comparto grafico (esemplari e significativi alcuni suoi scatti all’interno dei booklet). Questo non è un indizio da poco: la compattezza concettuale degli Agalloch è dovuta in gran parte all’enorme mole di input che Haughm è stato capace di unificare in modi coerenti ed efficaci. Le parole, le melodie, i rumori, le immagini sono tutti aspetti di una singola entità, che attraverso diversi stimoli punta a esprimere uno stato d’animo, o forse qualcosa di più, magari un modo di vivere il mondo. La serietà con cui questo maelstrom di contenuti viene proposto al pubblico dimostra nuovamente l’unicità del gruppo, che segue un percorso (un path idilliaco) tutto suo, astraendosi da qualsiasi mondanità.

From Which Of This Oak e Pale Folklore, gli inizi

Agalloch - Pale Folklore

Il 1997 è l’anno dell’esordio per la band, con la demo From Which Of This Oak. Si tratta di un lavoro grezzo e piuttosto lontano dagli standard che verranno raggiunti nel giro di tre o quattro anni, tuttavia possiamo già rintracciare alcuni degli elementi che renderanno unici tutti i dischi a nome Agalloch, a partire da quelle linee di chitarra che avanzano ininterrotte minuto dopo minuto, con l’elettrica che incide i brani nel profondo con ruvide melodie. From Which Of This Oak è comunque molto utile non solo a cogliere le radici black metal degli Agalloch, qua più accentuate rispetto ai dischi successivi, ma anche a comprendere meglio il loro sofisticato metodo di scrittura, ancora acerbo ma tuttavia di rara intelligenza, lo stesso che ritroveremo potenziato poi nell’esordio Pale Folklore: all’interno di From Which Of This Oak è infatti presente una versione di “As Embers Dress The Sky”, immatura ma dalle idee ben focalizzate. La voce è diversa, uno scream greve e gutturale, e certi riff differiscono in alcuni passaggi. L’idea di aggiungere parti ambientali e inserti vocali femminili era già abbozzata, e infatti “Foliorum Viridum” ricorda molto la “Misshapen Steed” di due anni dopo, così come l’accenno neoclassico della prima versione di “As Embers Dress The Sky” viene rivisitato in Pale Folklore (sia nell’apertura del disco, sia nell’omonimo brano). La struttura generale del pezzo a distanza di due anni rimarrà comunque la stessa, con alcuni cambiamenti non invasivi ma importanti, a dimostrazione di come la band fin dagli inizi sapesse benissimo dove indirizzare il proprio suono, rendendolo inconfondibile. 

Pale Folklore (1999) è l’album di debutto, e anche se esce solo due anni dopo la prima demo, il divario tra i due dischi rimane immenso. Il trittico in apertura (“She Painted Fire Across The Skyline”) lascia senza fiato, con quel semplice riff che per oltre tre minuti incanta e ipnotizza, per poi sprigionare tutta l’energia che fin lì era rimasta solo un vago eco in lontananza, tra batteria veloce, chitarre incalzanti e parole lacerate. Haughm si dimostra già un cantante estremamente abile, e col senno di poi si può dire che la sua voce in tutti questi anni non è sostanzialmente cambiata, si è solo fatta più profonda, più vissuta. Resta il fatto che le sue grida così sofferte ma al contempo posate diventeranno subito uno dei marchi distintivi del gruppo, sia che si tratti di cori, pezzi lenti o accelerazioni. Pale Folklore contiene in sé buona parte del suono-Agalloch come lo conosciamo oggi, dagli inserti atmosferici alle complicate trame compositive che solo poche altre band sanno creare. Con questo non si intende di certo affermare che dal punto di vista stilistico il gruppo sia rimasto sostanzialmente fermo, tant’è che ogni disco suona in maniera differente; si fa semplicemente notare che sono già presenti (quasi) tutti quegli elementi che negli anni a venire saranno poi declinati, distorti, approfonditi in una maniera non radicale ma comunque originale. L’unica cosa che manca è la chitarra acustica in primo piano, che a partire dal successivo album acquisisce un ruolo fondamentale nel songwriting del gruppo. Nota importante: questo è l’ultimo disco con Breyer, che subito dopo la registrazione decide di abbandonare la band.

Pale Folklore – almeno per me – resta il miglior lavoro degli Agalloch, disco che mai verrà eguagliato negli anni a seguire, sia dal punto di vista delle sensazioni sia da quello tecnico. È un peccato notare che probabilmente si tratta anche del loro disco più sottovalutato, nonostante l’inarrivabile genuinità e la disarmante bellezza.

The Mantle e i prototipi

Agalloch - The Mantle

Nel 2002, dopo un ep di transizione (l’interessante Of Stone, Wind And Pillor), esce il secondo full length, The Mantle. Si tratta forse dell’album più debole dell’intera discografia, ma non per questo va sminuito: la musica perde qualcosa del suo spessore, ci sono molti brani lenti e il mood generale si è fatto più tetro e scarno, dal tono apocalittico (in apertura abbiamo “A Celebration For The Death Of Man” e in chiusura “A Desolation Song”, due brani tanto strazianti quanto irresistibili). Questo è sicuramente il disco più sofferto degli Agalloch, dove uno stato d’animo molto negativo si riverbera a livello strumentale e vocale, in un modo mai ripetuto negli album successivi. È sicuro anche che proprio questo clima malinconico sia la componente più importante degli Agalloch dei primi anni 2000, un elemento che va a toccare i giusti tasti della sensibilità di chi ascolta. Of Stone, Wind And Pillor è il prototipo di questo suono particolare, anche se è un lavoro ancora incompleto. Le similarità tra l’ep e l’album sono comunque tantissime, e si nota con facilità che gli elementi migliori del primo sono stati raffinati e approfonditi nel secondo. Da questo, infatti, The Mantle eredita quella particolare atmosfera che sa essere solenne e decadente allo stesso tempo: le sue melodie tristi avvolgono delicatamente ogni brano, abili nell’evocare con successo sensazioni vivide e toccanti.

The Mantle scivola via tra alti e bassi, ma è proprio in questo disco che cresce l’amore per la chitarra acustica. Ora non è più un semplice riempimento, ma diventa colonna portante di ogni pezzo: quando non è assoluta protagonista (“A Desolation Song”), si rivela essere la controparte perfetta del riffing elettrico (“In The Shadow Of Our Pale Companion”). Ragionando in termini schematici si può dire che gli Agalloch abbiano fatto un passo di lato anziché in avanti, raggiungendo una nuova forma sonora che comunque non va a modificare sostanzialmente l’impronta del gruppo.

Bisogna attendere quattro lunghi anni prima di poter ascoltare un nuovo album, e intanto gli Agalloch pubblicano due ep e uno split. Tomorrow Will Never Come Ep presenta una rivisitazione dell’opener di The Mantle più un brano inedito, mentre The Grey Ep consiste in una “The Lodge” destrutturata e riassemblata, a cui si aggiunge il remix di “Odal”. Tutto materiale direttamente connesso con il disco del 2002, godibile ma trascurabile. Lo split invece è una piccola gemma ormai difficile da reperire: un brano a testa tra Agalloch e Nest, progetto dalle coordinate simili ma più vicino a sonorità tipicamente ambient.

Our Fortress Is Burning…

Agalloch - Ashes Against The Grain

Ashes Against The Grain (2006) è considerato da molti come il miglior lavoro del gruppo, e non a caso è stato proprio questo ad attirare in modo definitivo l’attenzione della stampa e del pubblico internazionale. Il suono adesso è più concentrato, con meno passaggi minimali e dispersivi, mentre le chitarre si rendono particolarmente vivaci. Stessa situazione per la batteria, più in vista che mai, anche se non sempre riesce a convincere (troppo piatta e ripetitiva in “Falling Snow”, ad esempio, seppur con qualche buono spunto). La trama creata dall’intreccio delle chitarre è di rara intensità, i minuti scorrono senza che il suono ceda nulla della sua energia iniziale, ed anzi non fa che crescere. Il momento più alto si raggiunge con la penultima traccia “Bloodbirds”, capolavoro di musica e parole, dove gli Agalloch dipingono il loro ritratto più oscuro dell’uomo, un grido di disperazione commovente. Il gruppo riesce di nuovo a generare un sentimento che va oltre il semplice piacere, una commistione di gioia e rassegnazione, tra declino e pace dello spirito.

Ashes Against The Grain rappresenta il punto di massima maturità per Haughm, un vero poeta, che oltre a scrivere testi di rara bellezza riesce pure a eseguirli attraverso semplici sussurri o grida disperate, mantenendo comunque quell’inconfondibile tono di voce capace di suscitare sensazioni uniche anche nella sua forma più grezza o violenta. Questo full length è un vertice per il gruppo e segna il raggiungimento di una forma in cui convivono elementi di natura diversa ma che sanno controbilanciarsi senza stonare, la fine di un cammino ma anche l’inizio di uno nuovo, tant’è che gli Agalloch di quattro anni dopo saranno piuttosto cambiati.

The White, una variazione sul tema

Nel 2008 la band pubblica quello che potrebbe essere il suo disco più intimo: The White Ep. Sette tracce di (neo)folk minimale con incursioni elettroniche, dove l’unica protagonista è, ovviamente, la chitarra. Poche percussioni, elettriche ridotte al minimo, dilatazioni ambient e cori vanno a formare un piccolo capolavoro con un suono a dir poco affascinante, intenso e coinvolgente. La voce in questo disco viene relegata a un ruolo meno esposto ma senza dubbio indispensabile, tra poesie recitate (la sublime “Birch White” di A. S. J. Tessimond) e sample cinematografici. The White Ep da questo versante si propone, in modo implicito, come la colonna sonora ideale di “The Wicker Man”, il film del 1973 di Robin Hardy, interpretato da Edward Woodward e dal sempre ottimo Christopher Lee. Forse “colonna sonora” non è il termine giusto per descrivere il disco in relazione con la pellicola: è più un omaggio, una reinterpretazione in chiave musicale del tema trattato e delle sensazioni che ne derivano. Resta il fatto che in “The Isle Of Summer” gli Agalloch citano il coro di bambini che si vedono nell’isola di Lord Summerisle solo per pochi istanti, mentre in “Sowilo Rune” e “Summerisle Reprise” vengono riportati due splendidi dialoghi tra i protagonisti, rappresentazione di uno scontro non solo culturale, ma anche umano e sociale.

La band ha estrapolato dal proprio suono alcuni semplici elementi e ci ha costruito sopra un ep che è la dimostrazione di come i suoi dischi siano l’unione di varie identità, differenti e profonde, frutto quindi di una eterogeneità di influenze che in fase compositiva confluiscono in uno stile che è originale e inarrivabile. The White è la sintesi di tutto ciò che non è metal negli Agalloch e – pur essendo una sorta di esperimento – non si può fare a meno di riconoscere quanto sia riuscito alla perfezione.

Qualcosa di diverso

Marrow Of The Spirit esce a novembre 2010, circa una decina d’anni dopo quel Pale Folklore che è indicato come l’esordio ufficiale. Un traguardo notevole, considerando anche il fatto che gruppo non ha fatto che migliorare. Il primo approccio lascia letteralmente spiazzati, viene da chiedersi se per caso si stia ascoltando il disco sbagliato: dopo una intro sostanzialmente ambient, parte “Into The Painted Grey”, un assalto di metal estremo ma con quel tratto distintivo che solo gli Agalloch riescono ad avere. Il ritmo rimane quasi sempre su velocità elevate e la voce di Haughm regge molto bene il passo, almeno finché serve, dato che i brani successivi saranno complessivamente piuttosto lenti. Seguono infatti pezzi come “The Watcher’s Monolith”, dall’umore e dai suoni molto vicini a The Mantle, e l’atipico “Black Lake Nidstång”, complesso mosaico di sussurri, riverberi, grida e riff sconnessi avvolto da un’atmosfera rarefatta. A chiusura del disco troviamo “To Drown”, un pezzo che si presenta riflessivo e delicato per poi raggiungere, in un bellissimo crescendo, una dimensione più rumorosa e tragica.

Marrow Of The Spirit è un album molto diverso dal suo predecessore, almeno sotto alcuni aspetti. Le chitarre sono più calde rispetto a Ashes Against The Grain, sicuramente anche più melodiche, così come la voce, che sembra essersi levigata col passare del tempo. A livello strumentale, insomma, non c’è nulla che sia fuori posto, tutti gli elementi sono ben dosati tra loro, la produzione è perfetta e il risultato finale è a dir poco spettacolare. Va notato però che i brani talvolta diventano leggermente dispersivi: i 17 minuti di “Black Lake Nidstång” contengono un suono strutturato su differenti stati d’animo, ed anche se questi sono uniti e mescolati in modo convincente resta il fatto che l’ascoltatore, nei momenti più minimali, potrebbe perdere la concentrazione. Da questo punto di vista gli Agalloch non si sono preoccupati di sintetizzare in pochi minuti le idee più interessanti, permettendosi invece di sviluppare all’interno di ogni brano vari elementi che talvolta hanno spazi distinti tra loro.

Quest’anno la band festeggia il quindicesimo anniversario del suo primo disco (From Which Of This Oak, 1997) e – coerentemente ai suoi ritmi – pubblica il nuovo ep Faustian Echoes. Si tratta di un’unica traccia di 21 minuti, la più lunga mai scritta dagli Agalloch, ispirata come suggerisce il titolo dal mito del Faust. Musicalmente questo brano non si allontana molto da Marrow Of The Spirit: le chitarre suonano più o meno con gli stessi effetti e distorsioni, la voce di Haughm è efficace come al solito, ci sono momenti slanciati e sezioni più dilatate. Faustian Echoes si fa ascoltare con piacere, ma non è ovviamente un disco essenziale, manca qualcosa che lo renda incisivo. Probabilmente il gruppo non si è impegnato tanto quanto accaduto con gli ep passati, ma un punto debole in una discografia pressoché perfetta glielo si perdona tranquillamente.


I testi, le parole, i significati

Finora si è parlato solo dell’aspetto musicale, ma va ricordato ancora una volta che gli Agalloch hanno saputo distinguersi anche grazie a una raccolta di testi tanto affascinanti quanto particolari. Va subito detto, però, che non è possibile proporne una panoramica completa. Oltre all’enorme quantità di concetti e riferimenti rintracciabili tra gli scritti di Haughm, infatti, rimane sempre quell’aspetto interiore indecifrabile per un osservatore esterno, e le interpretazioni si sprecherebbero.

Il rapporto con la natura è il perno del discorso degli Agalloch e si sviluppa a grandi linee su tre concetti: l’uomo, l’ambiente (the wilderness) e la divinità. Ognuno di questi elementi è strettamente collegato agli altri, ed è proprio questo rapporto a essere al centro delle parole di John Haughm. Questo sistema di interdipendenze viene raccontato in maniera estremamente intima, quasi viscerale, con una genuinità sbalorditiva, e non sempre è possibile coglierne i vari significati.

L’ambiente, la natura incontaminata, il wilderness che fin dagli esordi di From Which Of This Oak permea ogni brano: questo è lo scenario, lo sfondo in cui l’uomo vive e interagisce. Ma non è un qualcosa di passivo. La Natura ha una essenza propria, pulsa nel mondo e lo anima in tutti i suoi meccanismi più diversi.

If this grand panorama before me is what you call God… then God is not dead.

(The Mantle, “In The Shadow Of Our Pale Companion”)

Siamo nei limiti di una concezione (neo)pagana dell’universo. D’altronde già nei primi due dischi emerge questo carattere marcatamente animista e sono numerosi i richiami a certe correnti di pensiero. I testi poi si evolvono di pari passo con la controparte musicale, così si parte dalla Natura (Pale Folklore), si passa attraverso il nichilismo umano (Ashes Against The Grain) e si giunge a qualcosa di più universale (Marrow Of The Spirit). Fermiamoci però ancora per poco sul concetto di wilderness e delle interazioni umane. Se il primo viene connotato di certo come un elemento positivo e attivo, va sottolineato come l’interazione invece risulti fallimentare: l’uomo di Haughm è grigio, moribondo, e ogni suo sforzo termina nel’’oblio. Non a caso Ashes Against The Grain si delinea come un concept album sulla caduta dell’umanità, le cui conquiste finiscono ridotte in cenere.

Our fortress is burning against the grain of the shattered sky
[…] And all of our shadows are ashes against the grain

(Ashes Against The Grain, “Our Fortress Is Burning… II – Bloodbirds”)

L’uomo e le sue invenzioni, i suoi traguardi, raggiungono inevitabilmente una fine e svaniscono. La materia da cui sono composti si disfa e si tramuta in granelli di cenere che si disperdono per poi tornare a far parte del grande regno che li ha generati. Le ceneri, però, non sono la fine di un tragico cammino: carne e spirito vengono ricondotti alla matrice, per prendere parte all’inizio di un nuovo ciclo. Emerge ancora il concetto di reincarnazione e di assimilazione, fondamentale per diversi indirizzi spirituali e ricorrente nei testi di Haughm, che lo propone in maniera più o meno implicita. 

Earth to flesh, flesh to wood, cast these limbs into the water
Flesh to wood, wood to stone, cast this stone into the water

(Ashes Against The Grain, “Limbs”)

Sono numerosi gli esempi che si potrebbero fare al riguardo, molti dei quali concentrati all’interno di Ashes Against The Grain, un disco davvero pessimista e focalizzato totalmente sulla mortalità, sulla finitezza, ma anche sulla rigenerazione.

Red birds escape from my wounds and return as falling snow
to sweep the landscape: a wind haunted, wings without bodies
[…] The snow has fallen and raised this white mountain on which you will die and fade away in silence 

(Ashes Against The Grain, “Falling Snow”)

Gli uccelli come metafora del sangue che abbandona il corpo per riunirsi alla Natura – e diventare poi neve e montagna dove altri uomini moriranno senza lasciar traccia di sé – sono un ottimo espediente per suggerire in modo raffinato un qualcosa di cui non si parla mai apertamente o in maniera esplicita. I testi di Haughm sanno essere affascinanti proprio per questo particolare tipo di scrittura, che racconta ma non spiega, che accompagna ma non vuole convincere. E quando accade il contrario, avviene solo per bocca di persone fittizie o estranee (i sample di The Wicker Man, ad esempio, ma anche “Kneel To The Cross” di Sol Invictus, che gli Agalloch coverizzano in Of Stone, Wind And Pillor). Da questo punto di vista è curioso notare come i contenuti di album ed ep siano quasi gli stessi, ma descritti con uno spirito critico diverso. Nelle opere maggiori, cioè i quattro full length, gli accenni di carattere religioso vertono tutti sul paganesimo, mentre l’ostilità nei confronti del monoteismo cristiano è concentrata negli ep e comunque in pochi brani, che tra l’altro non portano la firma di Haughm. Infatti, come già detto, “Kneel To The Cross” è una cover, mentre “Sowilo Rune” e “Summerisle Reprise” non sono altro che pezzi strumentali su cui sono stati innestati due dialoghi originali del film The Wicker Man. Non è una coincidenza che gli Agalloch abbiano affidato proprio a questa pellicola un ruolo così importante all’interno del loro disco: The Wicker Man è un manifesto, un inno d’amore e conciliazione, ma anche ritratto di un forte scontro spirituale.

Hands… hands that lift the oceans
to vertical depths above the stars
For when I die, the universe will die with me
and all will be lost forever gone 

(Marrow Of The Spirit, “Into The Painted Grey”)

Agalloch - foto Veleda Thorsson

E Marrow Of The Spirit come si inserisce in tutto questo? Il carattere animista rimane certamente, ma il disco esula per la maggior parte dai temi soliti. La concentrazione si sposta su livelli più elevati e bui, allargando l’ambiente a dimensioni siderali. Se in passato le parole riguardavano qualcosa di delimitabile, con questo album la regola non vale più, perché i testi ora riguardano la percezione dell’universo, spazio dilatato che assorbe e include tutto quello su cui Haughm ha mai scritto. Gli elementi a cui eravamo abituati esistono ancora, ma si trovano in un contesto più ampio, ingranaggi di un meccanismo che non ci viene mai rivelato nei suoi veri connotati, ma di cui possiamo farci solo un’idea frammentata.

Marrow Of The Spirit è un disco concettualmente complicato e arduo da decifrare. Si apre e si chiude con un soggetto specifico, a quanto pare, ma chi sono questi they di cui si parla in “They Escaped The Weight of Darkness” e “To Drown”? E l’io narrante va contestualizzato nel brano in cui compare, quindi una situazione precisa, o fa parte di un’unica entità inscindibile? Come al solito non ci vengono dati tutti gli elementi per comprendere, forse semplicemente perché non è questo che gli Agalloch vogliono fare.

They escaped the weight of darkness
To forge a path into the marrow of the spirit

(Marrow Of The Spirit, “To Drown”)

We are the faces below the ripples

Gli Agalloch non danno cenni di affaticamento. Per quindici anni hanno influenzato un’intera generazione di musicisti senza mai fossilizzarsi su schemi precisi, e ancora oggi la loro vena creativa rimane pulsante. Marrow Of The Spirit, così come Faustian Echoes, dimostra che il gruppo non ha dimenticato come mutare e migliorarsi, sempre attraverso quelle stesse modalità che lo hanno reso infine qualcosa di ineguagliabile. Potrebbe darsi che non facciano più lo stesso effetto degli inizi, ma il loro contributo alla storia del genere risulta comunque già radicato e fondamentale. Non dimentichiamoci che furono tra i primi a contaminare folk e metal, integrando con cura impeccabile l’essenza del primo (il folklore) all’approccio sonoro del secondo, a differenza di tanti altri gruppi che distorcono questa connessione per un fine estetico e poco più. Discorso analogo per l’elemento post-rock: diversamente da chi si limita a prenderne i tratti distintivi per affiancarli a situazioni metalliche (la chiamano “sperimentazione”, ma troppe volte è un semplice copia-incolla), loro ci sono arrivati per evoluzione naturale, sviluppando nel tempo uno stile che interseca il genere senza rimanere direttamente influenzato da progetti specifici.

Questi impulsi sono poi stati intercettati da tante altre persone e traslati ognuno con modi e intenzioni diverse. Non credo ci sia il bisogno di fare un elenco dei nomi che possono aver ereditato dagli Agalloch questo o quel particolare dettaglio sonoro. Basta dire che esiste chi ha raccolto una vaga traccia lasciata dal gruppo e creato qualcosa di simile per poi percorrere sentieri anche molto diversi, ma è un risultato secondario. Il vero merito degli Agalloch è quello di aver condotto un genere verso qualcosa di diverso, qualcosa di nuovo, non più ristretto ma libero di crescere e allontanarsi dalle origini pur senza perdere ciò che lo ha sempre contraddistinto.

Un appunto

Ci sarebbe ancora tanto da dire. Gli Agalloch sono una band complessa, è davvero difficile proporre una prospettiva che non risulti superficiale. Il mio rimane comunque un lavoro incompleto, ma spero di aver reso giustizia ad un progetto fondamentale per il genere metal, ma non solo.

Ho scoperto il gruppo tanto tempo fa e sono praticamente cresciuto con loro, hanno saputo emozionarmi come poche altre cose che ho incontrato nel corso della mia vita. Questo articolo vuole essere un omaggio a qualcosa che è molto più di un semplice episodio musicale.

Formazione:

Jason William Walton – Basso (dal 1995)

John Haughm – Chitarre, Voce (dal 1995), Batteria (1996-2004)

Don Anderson – Chitarre, Piano; Backing Vocals (dal 1995)

Aesop Dekker – Batteria (dal 2007)

Discografia:

1997 – From Which of This Oak (Demo)

1999 – Pale Folklore (Full Length)

2001 – Of Stone, Wind and Pillor (EP)

2002 – The Mantle (Full Length)

2003 – Tomorrow Will Never Come (EP)

2004 – The Grey (EP)

2006 – Ashes Against The Grain (Full Length)

2008 – The White (EP)

2010 – Marrow Of The Spirit (Full Length)

2012 – Faustian Echoes (EP)


Charred birds escape from the ruins and return as cascading blood
Dying bloodbirds pooling, feeding the flood
The god of man is a failure
And all of our shadows are ashes against the grain