Wilco a Firenze: ceneri di bandiere americane sulle rive dell’Arno

Autore: Danilo Giungato Crediti: © Danilo Giungato / SottoPalco Copyright: © Danilo Giungato / SottoPalco

Mentre un mio (quasi) omonimo gira per l’Italia col camper (è l’11 ottobre 2012), arriva a Firenze il gruppo preferito dal presidente degli Stati Uniti: i Wilco. O “gli” Wilco? Annosa questione, che verrà risolta in questa sede chiamandoli sempre, da qui in avanti, “i Wilco”.

Dopo i Radiohead, ciò che ho pensato riguardo quest’altro concerto fiorentino è stato «’sti concerti mi costan più di Palazzo Vecchio!». Effettivamente, è vero: quasi trenta euri per uno spettacolo all’OBIhall sono forse un po’ tanti. Pazienza, per uno dei migliori gruppi americani degli ultimi vent’anni si può fare questo e altro. E di posti peggiori dell’OBIhall ce ne sono eccome: a discapito del nome che fa cacare duro (ma quanto era bello chiamarlo, tempo fa, Teatro Tenda! Cosa che effettivamente è: un teatro sotto una enorme tenda!), l’acustica è più che passabile e come capienza ci siamo: basta e avanza.

Certo, se ritorno col cuore e con la mente al concerto che questi sei signori di Chicago tennero tre anni fa alla Pergola, mi scende un po’ la lacrimuccia ripensando a tanto ben di Dio: dei suoni perfetti che non parevano veri, una scaletta incredibile, acustica a dir poco fuori dal normale, band in stato di grazia e chi più ne ha più ne metta. Poi, rimembro anche il Primavera Sound di Barcellona, nel 2010, nel corso del quale i Wilco fecero un grande spettacolo, nonostante i casini tecnici e la dispersività del festival. Anche se la memoria torna a quel momento, la commozione c’è per tanti motivi, ovvio. E una lacrima la vedrei bene pure sul viso di Jeff Tweedy, anche solo per il suo peso-forma: nel senso che meno di tre anni fa pesava giù per su una ventina di chili meno. Infatti, una mezzoretta circa dopo i discreti Hazey Janes, arrivano sul palco i Wilco, e il primo interrogativo che mi si pianta in testa guardando il loro leader è «ma chi è questo? Zucchero?». No, perché era da tempo che io e il buon Jeff non ci trovavamo faccia a faccia e inizialmente, dico la verità, ho fatto fatica a riconoscerlo, in queste nuove pingui vesti. Però mi fa piacere per lui: vuol dire che ora sta bene, è sereno e tutto quanto… ma veniamo alla Musica.

Le danze sono aperte da un classicone, “Ashes Of American Flags”. Jeff, al solito, è piuttosto scazzato, ma quando non lo è, dico io? Quindi, tutto liscio come l’olio: partenza ottima, un po’ col pilota automatico, ma va benissimo. Io, per una volta, forse anche per via del mancato sold-out, sono tra le prime file e me la godo copiosamente. Subito dopo, ecco che parte “Art Of Almost”, il pezzone lungo e articolato dai toni kraut estrapolato dalla loro ultima fatica di studio, The Whole Love. Nels Cline si diverte e comincia a gigioneggiare come un matto, soprattutto come un vero mattatore. Ripescaggio, direi, quasi antico, è invece “Outta Mind (Outta Sight)”, da Being There: un’inaspettata sorpresina. Su quest’ultima, e poi su “Black Moon”, altro brano del repertorio recente, che dal vivo guadagna in forza ed intensità, Jeff sembra quasi scocciato dall’esibizionismo di Nels; ma su “Spiders (Kidsmoke)”, tra le canzoni di punta del capolavoro A Ghost Is Born, gli si stampa il sorrisetto in faccia, grazie anche alla partecipazione del pubblico. Il bellissimo album Sky Blue Sky viene rappresentato alla grande, come spesso accade nei loro show, da una “Impossible Germany” particolarmente lunga e ricca di felici momenti chitarristici di stampo anni Settanta, dove Cline dimostra – come se ce ne fosse bisogno – di essere uno dei migliori chitarristi della sua generazione. Con “Born Alone” si ritorna non troppo felicemente all’ultimo disco; ma basta “How To Fight Loneliness”, direttamente da Summerteeth, a far risalire alle stelle gli entusiasmi, sia dei presenti sia del gruppo. Tweedy, addirittura, ringrazia in uno stentatissimo italiano.

“Misunderstood” è ormai uno dei quei pezzi che non possono proprio mancare: uno di quelli d’infinita semplicità e di altrettanta bellezza; e la gente partecipa, sobriamente, come ogni concerto serio richiederebbe. “California Stars”, uno dei molti testi di Woody Guthrie riadattati assieme al grandissimo Billy Bragg nei due Mermaid Avenue, è assai sentita e, in qualche modo, gioiosa, nelle sue trame acustiche e nel suo incedere country-folk venato di melodia. “Handshakes Drugs” e la splendida “Jesus, Etc.”, da poco coverizzata dall’immenso Bill Fay, riaprono il filone dei superclassici: i ragazzi sono sempre più in forma, e il loro live guadagna sempre più, sotto ogni aspetto, sia musicale, sia emotivo.

Di nuovo altri due episodi targati 2011: “Whole Love” e “Dawned On Me”, inframezzati da “Can’t Stand It”, altro momento cardine di Summerteeth: qui i Wilco sembrano i Crazy Horse che suonano un pezzo di Lennon–McCartney. Spettacolari. C’è poi “Hummingbird” ed è giubilo, poi ancora “A Shot In The Arm”, ed è di nuovo sorpresa.

Come di consueto, non può mancare il siparietto dove i sei musicisti vanno ad asciugarsi il sudore e a bere un bicchierino, col pubblico che li incita a tornare, sapendo che torneranno. E infatti, eccoli di nuovo lì che suonano “Passenger Side”, risalente agli esordi, cioè all’acerbo ma comunque incisivo A.M..

Davvero ottima la versione di “Kamera” qui proposta, così come quella di “Hate It Here”. Il loro disco del ’99 continua ad avere fantastici rappresentanti, ed è la volta di “I’m Always In Love”, che apre alla doppietta Yankee Hotel Foxtrot, costituita da una neilyoung-iana “I’m The Man Who Loves You” e dal pop scanzonato di “Heavy Metal Drummer”. In una furia quasi punk, “I’m A Wheel” conclude il tutto. I Wilco salutano il pubblico fiorentino, non numerosissimo ma caldo. Jeff, infatti, pare soddisfatto, specie quando si accorge che alcuni italiani conoscono a memoria il testo di “Jesus Etc.” e di altre canzoni.

I Wilco, oramai, sono uno di quei gruppi a cui, dal vivo (su disco si potrebbe accusarli di maniera, soffermandosi sugli ultimi lavori), non si può davvero recriminare nulla. Anche in un luogo dove l’acustica è buona ma non perfetta, riescono a dare il meglio: partono magari con un po’ di freddezza, ma guadagnano calore e intimità brano per brano. Jeff, Nels, Mikael, Glenn, Pat e John riescono a sorprendere l’ascoltatore grazie alla loro grandiosità tecnica, che non sbrodola mai in barocchismi fini a loro stessi, ma che è incentrata sul buon gusto, su un certosino lavoro di squadra che punta a migliorare i pezzi in ogni loro sfumatura. Fantastico, ad esempio, come riescano sempre ad iniziare e a concludere una canzone nel modo più perfetto possibile, con una circolarità che a momenti ha del maniacale. Tutto questo, accompagnato da tanta sobrietà, a cominciare da un palco scarno dal cui soffitto penzolano giusto delle luci da atmosfera quasi casalinga: un palco dove, in definitiva, ci sono solo strumenti (tra Cline e Tweedy si saranno viste cambiare una ventina di chitarre) e quindi nient’altro che musica. Musica che fa convivere al suo interno il pop beatlesiano, il folk dei padri, il country, il rock nelle sue forme più nobili, che vanno da Neil Young alle derive tedesche più psych: un concentrato di suoni acustici che vanno a braccetto con chili di elettricità, che si sposano e si alternano ad assolo di tastiera e a rintocchi di pianoforte, la melodia che incontra il rumore, la tradizione che guarda al futuro. Un gruppo che è già nell’Olimpo da tempo: Olimpo nel quale ormai è destinato a restare.

Questi sono i Wilco, e anche a Firenze, con una scaletta che definirei abbastanza schizofrenica nel saltare dalle novità ai brani più vecchi, ce lo hanno dimostrato. Spezzandoci di nuovo il cuore.

La foto di Jeff Tweedy è di Danilo Giungato (© Danilo Giungato / SottoPalco)