We (don’t) believe in you, Mark Hollis

Piccola introduzione.

Maurizio Inchingoli

La scusa resta quella di parlare di un album di insostenibile bellezza, scarno fino all’estremo, profondo e senza tempo. Basterebbero già queste poche parole per dare una più che sufficiente descrizione del debutto solista di Mark Hollis, meglio conosciuto come il cantante dei Talk Talk. È il 26 gennaio del 1998, e la Polydor pubblica quello che rimarrà l’unico disco a suo nome, dopo arriveranno soltanto sporadiche collaborazioni e un ostinato e certamente voluto oblio artistico. Hollis ricorda una vera e propria anima sensibile, a un certo punto della carriera dei Talk Talk non fa mistero di voler cercare una dimensione più intimista e soddisfacente sotto il profilo stilistico: forse col suo gruppo aveva calcato malvolentieri i palchi di mezzo mondo, chissà… Va detta una cosa, quella band veniva da un successo planetario e incredibile, vertiginoso quasi: forse c’era da aspettarsi una mossa del genere.

Hollis – Webb – Harris

Un Mondo In Diciotto Secondi

Nazim Comunale

1. Spirit Of Eden e Laughing Stock


A volte non hai il tempo di accorgertene, le cose capitano in pochi secondi. Tutto cambia. Sei vivo. Sei morto. E il mondo va avanti. Siamo sottili come carta (
Charles Bukowski)

Sono passati vent’anni. Ed oggi è venerdì sera, come sarà stato vent’anni fa. La differenza è che allora avevo 22 anni, uscivo per gli aperitivi, cercavo in città qualcosa che spesso non trovavo, mi sbronzavo e tornavo a casa. Sei vivo. Sei morto. E il mondo va avanti. Siamo sottili come carta. Ora invece me ne sto a casa, perfettamente tranquillo, davanti allo schermo, un orecchio grande quanto tutto il corpo ad ascoltare Spirit Of Eden, un disco che a trent’anni dall’uscita non ha perso un grammo della meraviglia che è ancora capace di suscitare. Una musica di angeli caduti, suonata con un tocco così umano da apparire disumano, spazi larghissimi ad aprire voragini, a suggerire vertigini, silenzi e partenze, pause, dettagli, il canto come una preghiera, lo spirito del Paradiso, perché vivere è salire verso l’alto, nonostante la gravità che preme contro il cielo, prendi la mia libertà per darmi un amore sacro, canta Mark Hollis, e sono brividi lungo la schiena, commozione e un accenno di lacrime anche adesso (piangere è un gesto desueto, in questi tempi aridi e assolati), al milionesimo ascolto, perché quella voce fruga dentro l’anima, è uno specchio, è la voce di un fratello, di un amico ritrovato, di qualcuno che sostiene un peso anche per noi, che rovista nell’immondizia del subconscio e canta anche chi siamo, le ferite che stanno sul nostro passaporto, la nostra bellissima fragilità. Difficile non essere retorici quando la materia trattata è a così alto tasso emotivo, sto scrivendo di getto e probabilmente non ci saranno altre stesure, la verità di certe sensazioni va colta subito oppure sfugge, l’amore che nutro per queste musiche ha profondamente a che fare con la mia vita stessa, sono ricordi, note sparse su magri brogliacci, notti all’addiaccio alle pendici del monte, rime, morsi, radici, sorsi, saluti da un ponte, il suono di un inizio e, inevitabilmente, di una fine.

Sono minuscoli dettagli che fanno un’epopea, la mia (f)utilissima mitologia personale. Ad esempio l’incedere sospeso e aereo di “Wealth”, la sesta ed ultima traccia di Spirit Of Eden, un miracolo di gospel bianchissimo e commosso, un prodigio sulle nuvole, una musica che fa dubitare dell’assenza di Dio, con la stessa potenza con cui compie la stessa operazione la “Passione secondo Matteo” di Johann Sebastian Bach. Ad esempio, a 4 minuti e 50, cos’è quel fiorire repentino di organo, che dura appena pochi secondi (le cose capitano in pochi secondi), se non una pura manifestazione dell’indicibile che ci attira e ci sovrasta? Cosa è se non il pallore di un Cristo metaforico e iperreale, il Cristo che tutti abbiamo dentro anche se non siamo mai stati a messa una volta nella vita, il Cristo che ci portiamo dentro perché siamo esseri finiti e mortali? Ecco, i Talk Talk, quelli del crepuscolo, sono riusciti nel miracolo (involontario?) di creare composizioni aperte che hanno (seppure leggerissime, impalpabili) il peso specifico di un testo sacro, di un trattato filosofico. Sinfonie in forma di haiku. Restare impassibili di fronte a questi pezzi è semplicemente impossibile. O se succede, ci sono problemi seri, forse irrisolvibili. Ghiacciai troppo antichi, inquinamento ambientale massiccio, o troppa cattiva musica.

1993, ero giovane e immortale, i tempi dell’università, il cuore spezzato, Bologna, tante canne, la strada dove ogni istante poteva piovermi addosso come una magnolia, come diceva il grande Cortazàr, riconoscersi tra simili, ed allora Raffaello, che alle lezioni di storia sociale aveva la maglietta rossa dei Motorpsycho di Demon Box e per primo mi fece ascoltare Lungo I Bordi dei Massimo Volume, facendomi notare come Egle in “Pizza Express” suonasse la monetina che entrava nel distributore automatico di bibite, poi Marcello che mi fece un ritratto, Monia, che fumava, fumava e ballava, Simona, che ora è famosa per le fotografie e quando uscirà questo pezzo avrà appena partorito, e tutto un popolo di anime affini che poi si è perso lungo la via. A loro, e a tutti quelli che ho incontrato quando eravamo giovani ed immortali, e a tutti quelli che non ho incontrato e non incontrerò mai, chiedo di fermarsi, fermarsi solo un momento, lasciar salire alle labbra il tempo che fu, quando avevamo vent’anni, vent’anni fa, e mettere su uno di questi dischi. La scelta è ampia: ad esempio io ricordo perfettamente la prima volta che ascoltai (in cassetta) Laughing Stock, l’ultimo disco dei Talk Talk, del 1991. In copertina nuovamente un albero, questa volta spoglio, ma abitato da uccelli, un cielo invernale, un mondo secco e solo un rigo di fiume sullo sfondo, come polvere di gesso blu su una lavagna nera nera, freddo che arriva nelle ossa, sentori di fine, e infatti poi non ci saranno altri capitoli, dopo un disco così non era possibile proseguire. Un perfetto suicidio commerciale, dopo il già coraggioso ed espanso predecessore del 1989. Qua, se possibile, la forma si sfrangia ancora di più, il respiro si allaga, si allarga, è lo stesso blues celeste a muovere i pezzi, groove fatti di nulla, miglia e miglia di spazio tra gli strumenti, tra le idee, canzoni-mondo che aprono sipari, sinfonie ambientali sulle quali la voce del leader si erge come fa il viandante sul mare di nebbia del quadro di Caspar David Friedrich del 1818. Ed è musica che pare provenire da un altro secolo, da un altro mondo, come la voce di Mark pare provenire da un altrove in cui non è sempre possibile arrivare. Lui, come un Dante privo di letteratura e sicumera, ma tremante e partecipe, ci racconta un aldilà che conosciamo, perché è anche il nostro, lo riconosciamo, ma sa farlo con una umanità strabiliante. Il dolore che abita il canto di Hollis è il blues della nostra vita. Perché tutto cambia, e siamo sottili come carta.

Ed erano sottili e in movimento le pareti quella sera in via Santa Margherita quando in fungo ascoltai tutta la sera Laughing Stock, che inizia con diciotto secondi di quasi silenzio, poi una chitarra appoggia un accordo sul nulla, e un universo intatto e fragilissimo si apre davanti a noi. Respiravano, le pareti, e io con loro, respiravano come fanno questi pezzi che non sono pop, non sono ambient, non sono rock, non sono post-rock, non sono wave, non sono dark, non sono soul, non sono jazz, non sono niente e sono tutto: impressionismo in musica. Dopo gli strabilianti successi pop di numeri comunque di alta scuola come “Such A Shame” o “Life Is What You Make It” (con annesso grande video in notturna nel bosco e un riff di piano che ti si stampa in testa all’istante e non ti molla più), a forza di parla parla, la band decide di sparire, nel migliore dei mo(n)di: regalando due dischi da isola deserta e sui quali si torna sempre, senza mai finire di trovare cose nuove. Troppa è la profondità, troppo grandi gli abissi, troppo ampio il cielo, lo stesso sotto il quale siamo noi ora, trent’anni dopo, ancora increduli di fronte a tanta meraviglia: e il diavolo, ancora una volta, sta nei dettagli. Ad esempio nel modo in cui gli archi entrano in “Myrrhman” e aprono il cuore, e non ci sono parole per dirlo, un pugno di note capace di fermare il tempo, mentre il pianoforte e il contrabbasso suonano la loro stessa scomparsa. È un poco tutta qua, forse, la grandezza degli ultimi Talk Talk e di Mark Hollis, nella capacità sovrannaturale di dare voce alla precarietà dell’esistenza, al nostro essere di passaggio, inevitabilmente caduchi e mortali, alberi, animali e conchiglie sulle copertine a sancire forse quanto poco conti l’uomo alla fine, se allarghiamo la prospettiva (e questo permette poi di raggiungere risultati artistici così umani da far tremare i polsi, da lasciare sgomenti. Sono dischi, gli ultimi due, che, semplicemente, non finiscono mai).

E allora, di nuovo: A volte non hai il tempo di accorgertene, le cose capitano in pochi secondi. Tutto cambia. Sei vivo. Sei morto. E il mondo va avanti. Siamo sottili come carta.

Curioso notare come più la formazione della band si fa nutrita (si passa da un assetto a quattro nel 1982 ai diciassette del 1986 ,con l’aggiunta di un coro di bambini, sino ai diciotto del 1991), più il suono attua un processo di progressiva polverizzazione, aria esso stesso, vicinissimo al silenzio. La musica dei Talk Talk è un lungo addio. Dopo quest’addio la sezione ritmica, Paul Webb al basso e Lee Harris alla batteria, dà vita a un breve progetto extra-ordinario, giusto un paio di anni, dal ‘94 al ‘96, gli .O.Rang, autori di un ep e di due dischi magistrali, Herd Of Instinct e Fields And Waves, il primo in particolare perso in una foresta primitiva dove si assiste al suono di un inizio febbrile, in un sabba lancinante e psichedelico che non lascia scampo. Alla voce nel primo pezzo compare Beth Gibbons, che poi sarà assieme a Webb nello splendido Out Of Season del 2002 a nome Beth Gibbons & Rustin Man.

Mark Hollis: una spedizione ai confini del silenzio

E Mark Hollis? Nel 1997 compare con lo pseudonimo di John Cope nel disco A V 1 a nome Dave Allinson/Phill Brown. Curiosa la scelta dello pseudonimo. John Cope, nome presumibilmente diffuso nel Regno Unito, era comunque quello di un generale del 18° secolo conosciuto per una sconfitta e anche di un medico ed esploratore britannico che prese parte alla spedizione Endurance tra il 1914 ed il 1917 in Antartide – durante la quale restò isolato sul continente – finita con la morte di tre dei dieci partecipanti. Nomi di uomini qualunque, everyday, everyman (come il disco dei Three Second Kiss, sempre del ’98, i baci, come le cose, capitano in pochi secondi, e chissà se esiste il caso), ma anche storie che sanno di perdita, di deriva. Il pezzo, intitolato tautologicamente “Piano”, è una lunga e rarefatta esplorazione minimalista, pochissime note sparse a sondare le nostre viscere, nemmeno una parola e di nuovo tanto, tantissimo silenzio. Non ancora quello definitivo, però, anche se ci manca poco.

All’inizio del 1998, prodotto dallo stesso Phill Brown (tecnico del suono che ha lavorato, tra gli altri, con Traffic e Led Zeppelin) che lo aveva ospitato sotto falso nome al piano l’anno precedente, arriva il primo e unico disco solista del musicista di Tottenham. Abbandonate le copertine colorate e immaginifiche di James Marsh, ora è la volta di un pane da festa con fattezze di animale, sotto al quale si intuisce la scritta in italiano torta salata. Un’epica sommessa, domestica, solitaria, un bianco e nero antico e nitido; abbandonate in parte le campiture orchestrali della band madre, Hollis ora si trova solo, solo e nudo davanti al suo dolore. E sceglie allora una vesta scabra e acustica, per un disco che suona incredibilmente bene, pur avendo una marea di fruscio (in un pezzo a un certo punto si sente il suono di una sedia che cigola). Quattordici musicisti (batteria, contrabbasso, piano, due clarinetti, armonica, tromba, flauto, corno inglese, tre chitarre acustiche, due fagotti) che riescono nell’impresa di suonare come il suono di una mano sola: e sopra tutto, dentro tutto, si staglia limpida e ferita la voce, appena accennata, sussurrata, perché le buone notizie vengono sempre date a bassa voce, e perché fa molto più rumore un bisbiglio di un urlo. Basta avere le orecchie attente e lasciare aperte le saracinesche. Un disco pieno di domande, guidato dall’ispirazione di un musicista che, quando si tratta di rispondere, china il capo e accenna un sorriso amaro: Parlami di te, chiese la mareggiata all’umano. Allargò le braccia in silenzio (Jerry Kramsky).

Nuovamente, si apre tutto con un silenzio, e sta tutto lì: sono, come in Laughing Stock, diciotto secondi di silenzio (e ancora: a volte non hai il tempo di accorgertene, le cose capitano in pochi secondi. Tutto cambia. Sei vivo. Sei morto. E il mondo va avanti. Siamo sottili come carta).

Poi, tre accordi di pianoforte, un testo che sa di elegia, dimentichiamo il nostro destino, il venditore ambulante canta,  fisserò ancora il colore della primavera, una canzone tra noi tutti, le parole vengono porte con metrica libera, Lawrence Pendrous al piano è magistrale e definitivo, i fiati aggiungono ombre, più che colori, la voce di Hollis è già una paradossale dichiarazione d’intenti: il pezzo si intitola “The Colour Of Spring” (come il disco dei T.T. del 1986), ma più che di rinascita qui si può parlare di saluto, di elegia.

Avrei dovuto dire così tanto? Più ami, più diventa difficile, il ritornello di “Watershed”, benedetta da un harmonium e da una voce che sembra quasi quella di un uccello tanto è fragile, e all’improvviso una vaga nausea nell’ascoltare il pezzo, la percezione che l’intatta bellezza del mondo non sopravvivrà al tempo che macina tutto, nemmeno questo disco sopravvivrà, nulla è eterno, polvere alla polvere, una canzone leggera come polline a primavera eppure terribilmente densa, un miracolo di architettura, costruita su di un’impalcatura sottile e un groove inesistente.

Senti la mia pelle, Signore, senti la mia fortuna rotolare giù, non resta altra vita, non resta altra vita per splendere, questa è “Inside Looking Out”, un pianoforte limpido e commosso, con una tristezza che non è mestizia e non è mai grigia, ma è nitida, perfetta, naturale, classica (la stessa intatta malinconia che sa di infanzia perduta eppure intatta dello Schumann che studiavo da bambino), il contrabbasso a mettere giusto un paio di virgole, e poi un filo, solo un filo di voce, con la chitarra ad aprire panorami raccolti e bellissimi, sette righe di testo, di nuovo un pugno di note a sfidare la morte, pause che sanno di orchestra derelitta e perfetta, una minima pulsazione di batteria, giusto un beat leggerissimo, il contrabbasso che non entra mai con più di una nota per volta, e poi nuovamente la voce, quella voce, e il rumore della sedia o di quel che è, mentre canta che la fortuna rotola giù: pochi dischi sanno essere così intimi ed universali, le privatissime memorie e speranze di quest’uomo inglese risuonano in maniera esatta con le mie. A questo punto si sale verso il cielo con “The Gift”, un cielo viola come quello della copertina di Laughing Stock, che trascolora in una nuvola di ance, con quelle stesse miracolose pause che trasportano letteralmente fuori dal tempo, in un altrove dove non si possono fare paragoni, ma solo abbandonarsi a tanta bellezza, al canto libero di un uomo vinto e arreso, che sa già che poi non canterà più, finché non giunge “A Life (1895-1915)”, senza soluzione di continuità, la voce che si fa sempre più sottile, “Westward Bound”, il limite verso Ovest, una radura di grande pace, un folk-soul trasfigurato, “The Daily Planet”, un 6/8 pencolante con splendidi dialoghi tra fagotto e clarinetti, e poi la voce e la melodia che aprono come sapevano fare i Talk Talk, lo stesso fare raccolto, nemmeno un briciolo di retorica eppure tanta (troppa? no, non è mai troppa, anche se quest’album a volte può essere insostenibile, tanto è sentito) emozione, distillata in arrangiamenti miracolosi e perfetti, che fanno suonare il disco come fosse stato registrato nel 1950 e pensato nel 2020. Fantasmi di jazz, bave di folk, un Nick Drake espanso e in fissa con Debussy invece che con i concerti branderbughesi di Bach, il senso di quieta remissione (cit. da Stefano Isidoro Bianchi su un vecchio numero di Blow Up) del post-rock, la dolcissima ruggine del blues acustico, lunghi piani sequenza come Morton Feldman insegna, canzoni che sembrano quadri di Mark Rothko, gospel ultraterreni, impossibile trovare una definizione per questi otto miracoli.

E poi si torna a casa, in una nuova Gerusalemme, sono di nuovo a casa, ma da solo, figlio mio, il paradiso mi brucia, dovrei giurare di combattere un’altra volta, e poi non lo ha più fatto, Mark Hollis dopo questo disco non ha mai più regalato al mondo la sua voce, solo un pezzo strumentale di un minuto scarso nel 2012, “Arb Section 1”, per la serie televisiva Boss, vedi parole sagge, vedi parole selvagge, tu le vedi? Dopo non ha detto più nulla, ha lasciato l’ultimo canto ai legni e poi quasi due minuti di nulla acustico a sancire la definitiva scomparsa.

Dopo un disco così crudo, poetico ed intenso, probabilmente non era possibile proseguire in nessun’altra maniera: sono passati vent’anni da quel gennaio del 1998 eppure questo capolavoro non smette di suonare profondo e vero, tanto da sapere ancora fare male, come ogni grande disco è capace, o forse addirittura deve fare. Chissà che passò per la testa di John Cope quando durante la tempesta ruppe gli ormeggi della nave Aurora lasciandolo isolato con nove compagni sul ghiaccio sterminato. Lui, lui tornò a casa vivo.

“So che mi accoglierà il silenzio, eppure.” – Wislawa Szymborska

Nota a margine

Mentre rileggevo lo scritto ho detto a Nazim queste parole: Sto cercando di dare una certa forma all’articolo sui Talk Talk. Stavo notando una cosa: la band non ha un sito ufficiale, ha solo una pagina social di suoi fan, unofficial ovviamente, e non ha canali su YouTube. I “matti” sono meglio dei “normali” che si uniformano, c’è poco da fare. 

Eppure non ti crediamo, forse ci illudiamo ancora di credere che questo silenzio prima o poi cesserà e all’improvviso ci regalerai un’altra manciata di note e parole che di sicuro potremmo ricordare fino a quando saremo in vita. Ma in fondo cosa importa se succederà o meno.