vonneumann, tl;dl

Non dovrei essere qui. Non su questa scrivania, non oggi. E invece, non capisco come, ma siamo capitati in questo tunnel, non so darmi una spiegazione. E allora ecco too long, didn’t listen, il nuovo e ottavo disco dei romani vonneumann, un disco psichico più che psichedelico, disponibile solo agli iscritti alla mailing list della band (le modalità le spieghiamo per bene nell’intervista). Un riff di chitarra impastato di ruggine & minaccia avanza, facendosi spazio tra sparsi disturbi e un basso malmostoso, la batteria barcolla ma resta in piedi tra uggia slintiana e un crescendo che per fortuna non arriva (quasi) mai. I vonneumann sono maestri dell’attesa delusa, dello spiazzare, tagliagole del prevedibile, creatori di protesi post-rock, prognosi e parentesi, di grafici monchi e strambi, di equazioni impossibili, di prospettive perfettamente a fuoco e ipso tempore felicemente strabiche, solo un rimestare nel pentagramma per aggiungere altri toni di grigio al grigio, antrace su antrace, una versione eroinomane dei Polvo. Ma polvere siamo e polvere torneremo e quando oramai l’esplosione sembra imminente, al minuto 7 e 45 un lampo di puro genio: un cut up che ha del prodigioso e ci ritroviamo trasportati in un’altra dimensione, un glitch swingato e imprendibile che riporta alla mente le alchimie miracolose dei Gastr del Sol. Parlando con fr, batteria e altro (nel precedente assetto a quattro invece al basso ) nei vonneumann, apprendo che è proprio da questo stacco che nasce l’idea dell’ennesimo suicido rituale di questi samurai dell’underground italiano, uno dei segreti più longevi e meglio nascosti delle musiche “altre” dello Stivale. Deterritorializzazione, frattali, rizomi, trattati di filosofia liofilizzata, lunghe suite di un quarto d’ora ciascuna, questo è quanto offre questo disco, un lavoro acrobatico e aperto, realizzato con molti contributi esterni, primo capitolo della serie collaborativa [ n ], un bellissimo manufatto contenente un racconto (di cui la musica è colonna sonora), il cd in 100 copie numerate e una foto in stampa unica. Nella seconda traccia fa capolino un pianoforte che fa pensare ai meccano sdentati di Vert (ve  li ricordate i suoi dischi per Sonig? Ebbe il suo quarto d’ora di celebrità rielaborando in chiave glitch il Köln Concert di Keith Jarrett), e ci ritroviamo tra paesaggi desolati e mutevoli: le rovine della musica che fu hanno fatto la ruggine dopo la pioggia della storia e questo è quello che resta, un brulicare di forme elettroacustiche che hanno vita propria e sembrano quasi ribellarsi ai loro artefici. Perché gli autori qua sono invisibili, l’ego dei musicisti scompare, in nome di un’ammirevole devozione al puro suono: molto abili tutti gli attori in scena (perché di cinema per l’orecchio si tratta, basta rallentare il respiro e ascoltarlo con calma e un poco di concentrazione) nello sciorinare un vocabolario elettronico sempre pertinente e molto espressivo, con attitudine profondamente umanista: i software, le macchine, in queste architetture impensabili e antisismiche (i pezzi riescono a stare in piedi sebbene subiscano molti tentativi di sabotaggio in corso d’opera) hanno una loro voce molto calda, e il pianoforte e l’armonica scassati che come bambini saltellanti giocano tra le frattaglie al silicio della seconda traccia ci confermano che abbiamo proprio a che fare con macchine morbide di burroughsiana memoria.

E quindi pasti nudi, congressi di psichiatria, supernova, Dr. Benway, Forbidden Planet, fantascienza anni Cinquanta, Star Trek, Dr. Mc Cormick, Dr. Mc Cormick, la ionizzazione si sta espandendo, se lo avessi ascoltato quando avevo vent’anni probabilmente avrei voluto vivermelo prendendo un acido, questo disco, un monolite capace di svelare micro o macro mondi (e chissà perché mi vengono in mente i Voivod di Dimension Hatross, “Macrosolutions To Megaproblems”), un alieno che sa parlare lingue ignote, come una versione audio dell’idioma delle creature di Arrival, è troppo lungo, non ascoltare, è troppo lungo, non leggere, è troppo delirante, non capire, la musica è indicibile, questo disco è improponibile e per questo imprescindibile, come una versione rock dei primi Matmos o un Økapi in catalessi (il dialogo tra corde e quelli che sembrano uccelli nella terza traccia, come un tradizionale greco sfilacciato e suonato da un nastro che è rimasto sepolto cinquant’anni nella sabbia), abbiamo sempre a che fare con strutture slabbrate e apertissime, con lucidissimi deliri, con scale escheriane, audiopsicofarmaci senza effetti collaterali. Non c’è niente da dire, e lo sto dicendo, e questa è poesia, diceva John Cage, che sicuramente avrebbe apprezzato questi agguati al galateo, un inno alla libertà in musica, tra detriti progressivi e vertigini a un solo passo da precipizi completamente free. Il caos incombe costantemente ma è un caos organizzato con precisione maniacale eppure con naturalezza, tutto fluisce e scorre come se fosse scritto anche se non lo è, non può esserlo, d’altra parte non esistono veri problemi, solo contestualizzazioni sbagliate. Tu devi solo ascoltarmi.

Questo ci comunica questo disco, l’ultima parte della terza traccia  (“didn’t”), con il suo zoppicare e la tromba morriconiana che riporta ai primi Tortoise: basterebbe mandare in vacanza quel chiacchiericcio malato a cui ti condanni costantemente e mettere una dietro l’altra le paroline giuste.

Lo ripeto, non c’è niente da dire, e lo sto dicendo, non si può skippare, va ascoltato tutto, più volte, per cercare di afferrarlo, ogni volta, a un ascolto ci troverai una sottospecie di blues della Silicon Valley, a quello dopo scampoli di  madrigali da nerd, poi stracci di rock in opposition, bave di funk passato in centrifuga e sminuzzato fino a sbiancare completamente. Dopo essere scesi negli inferi ed esserci ritrovati – nemmeno noi sappiamo come – in un limbo da diagnosi e cura, con la quarta traccia finalmente si innalza un drone  sottile e storto (c’è sempre qualcosa di miracolosamente e clinicamente storto, nella musica di vonneumann), poi entra una batteria jazzy, e ci si perde in una deriva tutta interiore, ma come sai i problemi più profondi di solito sono solo stronzate issate ad un’altezza assurda da costrutti sociolinguistici imposti da secoli di storia, e finalmente da un branco di cani elettronici che abbaiano si stagliano una chitarra trasfigurata ed altre figure irriconoscibili, per un finale enigmatico e perfetto, dopo quasi un’ora incapace di annoiare anche solo per un fottuto secondo. In questa recensione non sono state utilizzate medicine che alterino l’attenzione o la percezione né droghe di alcun tipo o misure di contenzione e non é intervenuto personale sanitario, è stato invece fatto ampio uso di stralci del racconto presente nel libretto, del resto su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere e allora taciamo e voi fatevi un favore, concedetevi un’esperienza, procuratevi questo disco.