VLADISLAV DELAY, Rakka

Sasu Ripatti rompe con questo disco un silenzio artistico durato oltre cinque anni: era il 2014 quando diede alle stampe il suo ultimo lavoro, Visa, a cui sarebbe seguito un lungo fading, la scomparsa delle sue pagine dai social, una pausa autoimposta per una voce considerata tra le più originali dell’onda glitch di inizio millennio. La scelta drastica di Sasu fu dettata, a suo dire, da un cambiamento di scenario: l’importanza assunta da marketing e autopromozione nell’ambiente in cui si trovava lo avrebbe portato a vendere il suo armamentario di sintetizzatori e a spostare il centro gravitazionale della sua esistenza da Berlino all’isola di Hailuoto, nel Mar Baltico, dove dedicarsi alla cura degli affetti, alla lettura, alla contemplazione della natura e a vecchie passioni come la batteria e il rap, lasciandosi così alle spalle il proprio retroterra elettronico.

Rakka costituisce quindi un nuovo inizio per il finlandese, che ha da poco visto ristampato uno dei suoi lavori più apprezzati – Multila – oltre ad avere in uscita una collaborazione con la leggendaria sezione ritmica giamaicana formata da Sly Dunbar e Robbie Shakespeare. Il suono di Vladislav Delay è adesso prettamente digitale e Rakka è un lavoro ispirato ai paesaggi artici e alla tundra, ma, come Sasu tiene a precisare, non si tratta di un disco “naturalistico” in senso stretto: non aspettiamoci quindi sonorità ambient, atmosfere dilatate e campi lunghi, ma una narrazione frastagliata, come di consueto, ispirata alla lotta per la sopravvivenza delle varie forme di vita, dotata perciò di una propria potenza, di un proprio vigore (anche sovrabbondante rispetto ai trascorsi). I graffi superficiali di inizio millennio diventano qui voragini, i glitch errori di sistema. Nel rimasticare il suo passato e il suo lessico usuale, Sasu lascia incastrarsi fra i denti brandelli di techno e non fa nulla per nasconderli all’orecchio. Il fluire a volte stentato, l’andatura balbettante, il reiterato e compiaciuto fragore – quando non acceso da bagliori boreali, intriso di tinte fosche – rendono abbastanza l’idea delle complesse dinamiche che regolano la vita a certe latitudini: tuttavia, si ha l’impressione che i paesaggi di Ripatti siano mentali prima che fisici e che, in ultima analisi, lo scenario abbia un ruolo marginale nella produzione del nostro. Resta comunque un ritorno in pista più che buono.