Vertigini e grazia: Innocence, capolavoro postumo di Luca Flores

Esaltare la forza della fragilità, cercare la scintilla di un passato-futuro, dialogare con l’incerto come fosse l’unica alleanza possibile, danzare su ogni doloroso punto dell’essere, e ricavare da tutto ciò la grazia, la grazia di un assoluto terreno: questo è Luca Flores. Non entrerò affatto nell’aspro terreno biografico dall’esito tremendo e luttuoso (1956-1995) che ha segnato la figura del grande musicista e pianista. Cercherò al contrario di aprire la porta che dà direttamente sul suo mondo.

C’è pluristilismo in questa release postuma di Flores, una pluralità di stili e discendenze che si vede tuttavia solo in controluce, poiché la densità e l’identità del suo corpo sonoro restano incontrovertibili: Flores dice Flores, Flores chiama Flores, Flores specchia Flores. Eppure, senza perdere contatto con questo principio d’identità, possiamo, a tratti, orecchiare sottotraccia un Chick Corea al ralenti e smussato nel tocco (mediato dal filtro dell’insegnamento di Enrico Pieranunzi), un Keith Jarrett asciugato e rettificato nell’impulsività o un Thelonious Monk profuso nel cantabile.  Resta fermo il fatto che Flores è stato, più di ogni altro pianista della sua generazione, dentro e fuori dall’Italia, il Chet Baker incarnato al piano. Nulla è mai fuori posto, tutto è soppesato come qualcosa di inevitabile, ultimativo, testamentario. Mai nessuna dissipazione energetica o sfoggio pianistico. Flores, pianista tendenzialmente modale (per quanto non manchi di un solido retroterra bop) riesce a non farsi intrappolare dagli stilemi e disegna sempre la melodia con l’attenzione con cui un pittore realista prenderebbe sul serio la più piccola e significativa asimmetria di un volto visto di sfuggita durante una passeggiata occasionale.

La gamma sonora del suo pianismo della fragilità tocca solo raramente il forte: sono difatti il mezzo-piano e il mezzo-forte le tinte predominanti. Con questo Innocence (Auand Records, 2019), doppio disco contenente sia inediti che versioni alternative di pezzi già pubblicati in How Far Can You Fly (Splash Records, 1995), riusciamo a tastare con dita pensanti una materia leggera e pesante al contempo, mai ruvida o spigolosa. Troviamo curvature, circolarità, concavità, corsi e ricorsi, domande inevase, penombre e attese, umidore e crepuscoli.

Tuttavia, a differenza di How Far Can You Fly, questo Innocence ci fa dono di improvvisazioni più sbilanciate e arrischianti, forse anche meno perfette e sorvegliate, ma che proprio grazie a un moderato eccesso (a una sottile perdita di autocontrollo) rivelano la superiore generosità ideativa sulla quale Flores faceva rigorosa opera di asciugatura, perseguendo sempre la filosofia del “less is more”. Il modo di portare il tempo è qui decisivo: esso sta in simbiotica relazione con la pasta timbrica tonda ma chiara, nel prevalere per intensità e senso di conduzione della m.d. sulla m.s., secondo una logica cesellatissima di chiusura delle frasi, con pause di respiro ampie e riflessive. Dunque il timing di Flores non è mai metronomico poiché non vuole esserlo: il suo è un portamento del tempo empatico, come conviene ad una musica cardiaca, non formalista né accademica. Gli autori classici prediletti da Flores (J. S. Bach e C. Debussy) non smettono mai di fare da sfondo gestaltico alle figure da lui tracciate. E vengono in mente gli schizzi e i disegni che lo stesso pianista amava fare e che ritroviamo nelle copertine di molti suoi dischi: astratti ma non distanzianti, talvolta intricati ma mai confusi, semiotici ma non esplicativi.

Non consiglio, come mio solito, l’ascolto di una traccia in particolare: lasciatevi scivolare sotto il manto multicolore della melancolia floresiana, e rimaneteci a lungo.