Varvara 4: del maiale non si butta via niente

Torino, 24-27 agosto. Foto di Elisa Parrino Rensovich & Domenico Mastruzzo.

Del maiale non si butta via niente. È questa la premessa dalla quale è partita la quarta edizione del Varvara, festival di musica elettronica e sperimentale che negli ultimi anni ha saputo imporsi come una vera e propria garanzia per gli amanti del genere, grazie soprattutto a una direzione artistica che non ha mai avuto paura di osare, proponendo live e dj set dal forte impatto sonoro e visivo. Questo assume ancora più forza se si pensa che in questo momento Torino è una città sotto attacco: se dall’esterno può infatti ancora sembrare che sia il centro di una nuova e viva scena musicale e artistica, in realtà i cambiamenti politici che l’hanno riguardata nell’ultimo anno hanno ridotto drasticamente sia gli spazi di fruizione, sia gli eventi che l’avevano portata a essere rilevante nel panorama nazionale e internazionale. Non solo: Torino in questo momento è una città ferita: ancora si deve riprendere dalla tragedia di Piazza San Carlo che ha portato, ad esempio, al NO alla movida sfociato in una serie di scontri in Santa Giulia, che hanno fatto sì che in città si respiri un clima di forte tensione e oppressione.

“Dobbiamo ancora nuotare nel fango”, dicevano i Negazione, storica band nata qui. E “Nel fango” era la tagline della serata di giovedì 24 che, all’ultimo, è stata spostata ai Murazzi del Po, riattivando una zona che un tempo qui era il cuore pulsante della notte.

Come da tradizione, Varvara comincia con le sonorità più distorte e sperimentali: sul palco sono in procinto di salire alcuni esponenti di spicco della scena industrial/dark wave più pesante e distruttiva, come Roger Karmanik, fondatore della storia etichetta Cold Meat Industry, e Justin K Broadrick, un nome che non ha bisogno di presentazioni.

Brighter Death Now

A dare il via con un suggestivo intreccio di pattern, che iniziano a scaldare il già numeroso pubblico presente, è A Karman Vortex Street (duo composto da Davide Vizio e Luca Morino).

È poi la volta dei local hero dell’industrial metal, gli Omega Machine, di cui abbiamo parlato di recente in occasione dell’uscita di The End That Comes With The Omega Machine. Il duo deve sicuramente tantissimo ai Godflesh di Streetcleaner, ma ha il merito di aver fatto proprio un genere che stava ormai scivolando nel dimenticatoio, aggiornandolo. I campionamenti usati come tracce vocali, gli angoscianti rumori di sottofondo e la chitarra ipnotica, metallica, monolitica, sostenuta da basse frequenze disturbanti, li rendono l’antipasto perfetto per l’arrivo di Brighter Death Now.

“Entertainment through pain”, dicevano i Throbbing Gristle. Karmanik ha sempre fatto sua quest’affermazione, portandola a un livello più alto: sul palco ci sono lui più Lina Baby Doll (Deutsch Nepal) e un terzo agli assalti sonori. Quella a cui assistiamo è una vera e propria performance del dolore, ispirata a quello che fu l’azionismo viennese di personaggi quali Günter Brus. Synth dalle sonorità profonde, pulsazioni e loop sovraccarichi di distorsioni e rumori che trapanano le sinapsi sono la base della non-musica dell’artista svedese: sulfurea e malata, ai confini del tollerabile, ossessionata e furente, mette a dura prova la resistenza fisica e psichica dei presenti a causa dell’uso di frequenze al limite della sopportazione umana.

JK Flesh

A questo punto è il turno dell’ospite probabilmente più atteso: Justin K Broadrick, che presenta il suo progetto techno-industrial JK Flesh. Vestito completamente di bianco, quasi a volersi dissociare da quell’immagine oscura al quale è indissolubilmente legato, è sul palco con un laptop, un mixer e un discreto numero di controller midi ed effetti, e dà vita a un set eccellente e magnetico, in grado di far ballare anche i numerosi fan con la t-shirt dei Godflesh che si sono accalcati nelle prime file. L’artista inglese ripropone alcuni pezzi del recente ep Suicide Estate Antibiotic Armageddon, con un remix inedito. Il sound è sempre appoggiato su bassi e battiti devastanti, echi distorti del tessuto industriale di Birmingham, città che ha influenzato ampiamente il suo lavoro. I suoi movimenti, come quando dopo essersi sollevato il cappuccio sembra quasi voler mimare un’impiccagione o un gesto estremo e violento, ci riportano all’energia delle band di Justin, ma in questo caso passata di mano a un robot che ha preso il sopravvento, proponendo dinamiche elettroniche brutali ed inquietanti.

In conclusione i dj set di Black Seed, Titta e Parrish Smith, giovanissimo olandese d’adozione che ha saputo farsi notare nel panorama internazionale grazie a importanti collaborazioni, come quella con Nina Kraviz.

Assistendo alle performance degli artisti, mi è venuta in mente una frase di Tsukamoto in merito alla realizzazione di Tetsuo – The Iron man: “Tetsuo nasce da questa immagine terribile: corpi ormai ridotti al solo cervello e una città sempre più forte. L’uomo si rende conto di dover lottare contro di essa, utilizzando il proprio corpo, e fa in modo che la carne si trasformi parzialmente in ferro, per affrontare ad armi pari il suo avversario, per sferrare un pugno alla città. Il messaggio è quindi di speranza: che la città venga distrutta non da guerre o da ordigni meccanici, ma dal corpo degli esseri umani”. E questa sera la città è stata resa al suolo da mille corpi che si accalcavano uno sull’altro, sotto l’attacco di rumori metallici e fragorosi.

Risultato: Varvara 1 – Città 0.

Dbridge

Venerdì e sabato il Varvara diventa una costola del TOdays, festival di musica nazionale e internazionale che quest’anno sul palco dello Spazio 211 ospita artisti del calibro di PJ Harvey, Band Of Horses e Mac DeMarco. La cornice del TOdays è Barriera di Milano, uno dei quartieri della periferia nord del capoluogo piemontese, che, dopo essere stato al centro di progetti di gentrificazione come la costruzione del Parco Aurelio Pecci o del Museo di Arte Contemporanea Ettore Fico, negli ultimi mesi sembra essere tornato nell’oblio. La serate Varvara si spostano quindi all’Ex INCET, un’ex fabbrica di cavi tessili nel cuore della Torino proletaria.

Venerdì (tagline “Le perle”) parte con il live audio/visual di Max Cooper, arrivato direttamente a Torino dal Mutek di Montreal. La sua è un’elettronica sognante, atmosferica, in qualche modo influenzata dalle “glitch performance” di Venetian Snares e Squarepusher. Il punto centrale è la matematica: il progetto di Cooper è infatti ispirato all’evoluzione dell’universo e si occupa dell’interazione tra caos e ordine perfetto. Il live è strutturato tramite Ableton e Resolume, facendo in modo che ogni brano proposto inneschi un video-clip specifico, dando vita a visual in gran parte ispirati dallo spazio, fino ad arrivare a forme più geometriche ed astratte.

Poi è la volta dei dj set: la d’n’b di Darren White aka Dbridge, storico producer inglese che fa scatenare il pubblico col suo mix di techno e hip-hop; A Made Up Sound, giovane artista olandese che ci regala un set infuocato tra dubstep e techno, per finire con Shed, moniker di René Pawlowitx, altro storico producer, ma con base a Berlino. Lui strizza forse un po’ troppo l’occhio a sonorità dei primi anni 2000, con cenni di Detroit sound e techno dalle sfumature ravey.

L’after-party prosegue poi per tutta la notte all’AMEN sito ai Docks Dora, con centinaia di persone che percorrono la strada a piedi dall’INCET per continuare a ballare fino al mattino.

Risultato della seconda giornata: Varvara 2 – Città 0.

Terence Fixmer

Sabato 26 le cose iniziano a farsi difficili: la polizia all’ingresso impedisce a moltissimi giovani arrivati da tutta Italia di entrare, causa eccesso di presenze. Inoltre, l’after-party conclusivo viene vietato, portando un certo clima di sconforto e amarezza tra gli addetti ai lavori. Ma la serata è appena iniziata e la tagline “Con le ali” ci ricorda che i porci possono fare tutto quello che vogliono. Oggi ci saranno solo live set e sul palco è difficile riuscire a contare il numero di synth e controller disposti sui diversi tavoli.

Il primo a esibirsi è il duo torinese Boston 168. L’INCET non può che essere la cornice perfetta per un loro live: l’acid techno proposta è il risultato di sonorità industriali e meccaniche, rese ancora più particolari dall’ausilio degli strumenti che hanno scritto la storia della musica elettronica: da un Moog Mother 32 alla Roland T909.

A seguire troviamo un vero e proprio guru della techno underground, il finlandese Kimmo Rapatti aka Mono Junk, soprannominato Analogue Junkie per via del fatto che non ha mai utilizzato un laptop per le sue produzioni. Il suo set ripercorre alcuni degli episodi più celebri della carriera, come “Can’t Understand” o “Panic Of The Disco”, portando alla luce quello che è il sound che lo contraddistingue: un minimalismo dalle connotazioni “trippy”, frequenze basse che creano sussurri dark e linee acide che sfociano in ritmi paranoici e maniacali.

È la volta di Terence Fixmer, re della “techno body music”, un mix di electro, industrial, ebm e techno che il producer francese intreccia sapientemente dando vita a un set infuocato. Il sound è solido, compatto, un vero e proprio muro di ferocia. I pezzi proposti si basano su di una forte urgenza comunicativa, un’urgenza fatta di corpi che si espandono uno sull’altro, corroborati da lunghe sequenze di ripetizioni e suoni sempre più bassi e veloci.

A chiusura del festival troviamo due delle più luminose promesse della scena techno mondiale: Pariah e Blawan si sono uniti, dando vita ad un mostro mitologico chiamato Karenn. Il live si basa su synth, drum machine e sequencer che vanno a creare suoni grezzi e ruvidi che spingono tutto al limite, rendendolo al contempo corposo e palpabile. Sono le frequenze di basso a farla da padrone, a smuovere i presenti, partorendo un rituale creativo ipnotico, basato su frequenze magnetiche e vibrazioni tese che sfociano in quella che viene definita “free-form hardware techno”.

Il concerto finisce con l’alba alle porte e centinaia di persone che si incamminano verso le fermate dei mezzi più vicine.

Mai come quest’anno i riferimenti simbolici sono stati azzeccati: in una città in cui le dinamiche di interesse politico stanno prendendo il sopravvento rispetto a quelle che sono le reali esigenze sociali non solo della periferia ma anche del centro, l’unica azione possibile è quella di creare percorsi alternativi, partecipando attivamente a trovare nuove soluzioni nelle quali far vivere l’arte e la musica.

“Margaritas ante porcos”, dicevano i latini: che Torino torni a risplendere, per non perdere occasioni uniche come quelle che ci ha donato questo festival.