“Vapore” & Francesco Tenaglia

"Vapore" & Francesco Tenaglia

Secondo te, allora, la musica va sentita al buio in camera propria, da soli?

Se siete interessati alla risposta a questa domanda, vi basta andare a vedere la non ricordo quale puntata del programma “C’è musica e musica”. C’è però anche chi più o meno volontariamente ha provato a rivolgersela. C’è musica e musica certo, ma ci sono anche situazioni e situazioni. Francesco Tenaglia ha prestato a vario titolo la sua mano a Blow Up, è curatore di mostre (la più recente è “Eclissi”, con Paolo Inverni alla Galerie Mario Mazzoli di Berlino, la stessa dove hanno esposto Di Scipio, Pugliese o la Kubisch, per intenderci) e scrittore. Tra settembre e dicembre dell’anno scorso ha portato nella cornice dello Spazio O’ di Milano l’evento “Vapore”: ascoltare la musica al buio, in camera propria, da soli? Al buio no, da soli sì. Per camera propria, dipende: se intesa come puro e semplice luogo intimo e incontaminato allora sì, soprattutto se – come nel caso di “Vapore” – la fruizione della musica è in qualche modo domestica, perché permessa da un semplice impianto casalingo. Allo stesso tempo, quindi, siamo lontani da maniere e spesso congetture di tanta sound art “ornamentale”. Una suggestione possibile se si vuole, molto “ingenua” (in senso buono), intuitiva, ma altrettanto spontanea è la dicotomia tra musica in edizione limitata e musica per un numero limitato di ascolti (uno solo per ciascuno dei 150 ammessi all’evento). Un’esperienza così, nella sua fisionomia, è realmente unica, e senza significanti astratti o imbevuti di sentimentalismi (la foto iniziale e quella della “postazione Momus” sono della nostra Giulia Romanelli).

Ciao Francesco. Innanzitutto perché questa iniziativa, filo conduttore?

Francesco Tenaglia: Ciao Tommaso. “Vapore” è nato un paio di anni fa quando ho visitato Tokyo: mi resi conto che tre artisti che seguivo fin dagli anni Novanta – Nick Currie (Momus), Terre Thaemlitz e Jim O’Rourke – si erano trasferiti in Giappone. Da lì è nata l’idea di commissionare ai tre altrettanti brani originali e diffonderli in uno spazio per un numero definito di ascolti personali. Ne ho parlato con Sara Serighelli di O’ a Milano, che con mia grande gioia ha accolto il progetto. “Vapore” è stato il tentativo di fabbricare una capsula temporale che rimandava, implicitamente, a quel decennio: gli artisti scelti; il fatto di sapere che una tal musica esiste senza avere necessariamente la possibilità di ascoltarla (o, ancor meglio, doverla immaginare partendo da descrizioni di amici o recensioni); il Giappone presentato come luogo esotico per eccellenza. Una cultura industrializzata, ma con ramificazioni locali profonde e patria di continue ondate di musiche “incredibilmente strane”, si sarebbe detto. Lo spirito, però, non era nostalgico, piuttosto quello di tirare per i capelli questi riferimenti dal loro “habitat” e spostarli in un mini-formato di presentazione discografica: sovrapporre la capsula con il 2014. In modo non troppo palese: mi piaceva l’idea che un fan potesse sedersi e godersi una composizione inedita, senza preoccuparsi di altro.

Penso a “Vapore” come una sorta di edizione musicale in “formato allargato”. Mi spiego meglio: la liturgia (il dover recarsi in un luogo specifico) è tipica del live, che poi live non è, dato che in questo caso si tratta di brani registrati. D’altro canto non penso di possa parlare di installazione o enviromental music, dato che in quei casi il suono è una componente “collaterale”. Potremmo dire che hai voluto quindi trasformare lo spazio O’ nel tuo disco in edizione limitata?

Sì, sono d’accordo, per me Vapore è un’etichetta con tanto di poster, adesivi  e immagine coordinata che ho affidato a Samuele Anzellotti. Il tentativo di forzare – oltre misura, in modo quasi parodistico o illusionistico – il formato discografico. L’idea di non-replicabilità non deriva dal “live” – orbito istintivamente intorno a generi che hanno naturalità con lo studio di registrazione più che con il palco – quanto dalla rarefazione dei formati industriali tradizionali della musica registrata: strutturale (i fuori catalogo) o ricercata artificialmente (penso alle edizioni limitate o speciali). M’interessava creare un ponte intimo tra l’ascoltatore e l’autore – come, appunto, una cartolina da un luogo lontano – e, allo stesso tempo, rendere vistosa la ricaduta estetica delle condizioni e dell’iter che portano all’ascolto: la liturgia – come dici – del prenotarsi, del raggiungere un luogo, la consapevolezza che il brano può essere ascoltato una sola volta prima di svanire, sono ostacoli all’accesso arbitrari.

Non direi che il suono fosse una componente collaterale, anzi! Il progetto prevedeva per motivi, diciamo così, “autobiografici” che il visitatore entrasse solo e ascoltasse i brani su un impianto stereo casalingo (e non su un impianto per concerti o attraverso altre modalità di diffusione).

Vapore, Thaemlitz

Se un ascolto riesce a sopravvivere soltanto nella memoria anziché in sempre più affollati scaffali, possiamo parlare di “Vapore”, e non la considero una domanda da poco, come un tentativo di musica autosostenibile?

Ecco, non so se l’ascolto si preserverà nella memoria dei visitatori, diciamo che l’attestato che abbiamo consegnato loro è una cartina tornasole: resta, mentre inevitabilmente i brani saranno “reinterpretati” nella memoria.  La sostenibilità della musica è sempre emersa al crocevia tra tecnologia, motivazioni e modi di produzione/ricezione e interessi/economie delle parti in campo in modo organico: “Vapore” ha avuto delle implicazioni interessanti, ma non l’ambizione di aprire “strade”.

Vapore, l'ascolto

Primo ascolto: Terre “DJ Sprinkles” Thaemlitz. Un brano che richiama lettera per lettera il suo articolo “Social Media Content Removal Fail”, a sua volta preannunciato dalle parole di Susan Sontag: “You want to share things with other people, but on the other hand you don’t want to just  feed the machine that needs millions of fantasies and objects and products and opinions to be fed into it every day in order to keep on going. And that’s perhaps a reason one is tempted to be silent sometimes”. La tua opinione da critico a riguardo? Abbiamo davvero sacrificato la conoscenza per un pugno di informazioni?

Il testo nato per la traccia di “Vapore” si chiama “What the hell is Terre’s problem?!!”, sintetizza le preoccupazioni  espresse in “Social Media Content Removal Fail” ed è comunque consultabile sul sito Comatonse.

Credo di aver avuto  l’illuminazione sulla naturalizzazione di questi temi ascoltando Anna Huffington che diceva, in occasione del lancio della versione italiana del suo “Post”, “self-expression is the new entertainment” (“l’espressione di sé è il nuovo intrattenimento”). Concetto esplorato nel settore dell’elettronica di consumo – ad esempio, con lungimiranza, da Apple – che non promuoveva più “potenze di calcolo”, ma “hub” semplici per archiviare e condividere media personali. Nella sintesi riecheggiava in filigrana: “Perché essere retribuiti per fare quel che ci piace?”.  Anche se non sono sempre d’accordo, è molto importante il lavoro teorico di Terre su originalità, arte come labor-work e in questo specifico caso sulla necessità, nella sua pratica, di offrire risposte critiche ad ambienti specifici che YouTube o altri social non le garantiscono.

Le considerazioni sull’espressione di sé e creazione come prodotto secondario dell’essere al mondo sono accolte da artisti – afferenti alle galassie definite, per intenderci, post-internet o accelerazioniste – che riflettono sull’ecosistema distributivo e relazionale costruito dal social o ne incorporano automatismi e format espressivi.  A volte con grande successo, ma sempre producendo metafore o “oggetti” (mostre o dischi) più cauti, in termini di tutela dello stile individuale e di idee classiche di autorialità, della realtà cui si ispirano.

Vapore2

Secondo ascolto: Nicholas “Momus” Currie. Un “baccanale clownesco” nella cornice di una tendina che voleva richiamare quella di un circo. Involontariamente è anche quasi un richiamo al tendaggio pitagorico schaefferiano e a una sorta di “Expérience Acoustique” (per dirla à la Bayle). Insomma, anche l’esecutore nel 21esimo secolo è diventato davvero una figura “oscena” (nel senso teatrale del termine ossia ob-sceno, fuori dalla scena), sacrificabile o quantomeno molto marginale?

Momus ha una lunga storia con il Giappone: da bimbo ha inciso – e poi inserito come ghost track in un disco – la canzone “I Can See Japan”. Ha composto e scritto per la scena Shibuya-Kei nei Novanta, un pastiche di riferimenti alla chanson  francese degli anni Sessanta e alla musica da film italiana e molto altro. Uno scozzese che ha contribuito alla creazione di un pop post-moderno in Giappone, poi attecchito anche negli Stati Uniti e in Europa.  Oggi, Momus vive a Osaka. Ha composto  album progressivamente più sperimentali e scrive libri molto belli: l’ultimo, edito da Fiktion, è scaricabile gratuitamente.  Mi divertiva molto questo gioco di specchi: il brano “Pigtails” era basato su un montaggio di campionamenti tratti da un varietà della BBC del 1948 e la tenda alludeva a un viaggiatore e a un clown. Nella struttura, c’era una foto di Nick in abiti orientali che teneva in mano un mandarino cinese in una posa somigliante a quella di Amleto con il teschio. Quello che dici sulla figura dell’artista fuori scena è interessante: credo che uno dei motivi tradizionali del fascino del Giappone risieda nella sensazione di essere all’interno di un sistema di regole molto elegante, ma sostanzialmente impenetrabile se non escludente. Forse nel desiderio di trasferirsi lì, c’è sempre un sottofondo di desiderio di alterità, di conforto dall’ego o – in qualche modo – di “uscire di scena”.

Vapore, O'Rourke

Terzo ascolto: Jim O’Rourke. Drone serafico in mezzo a piante di vario tipo. Penso al suo brano come quello dai maggiori riscontri. Quando hai ricevuto il suo materiale avevi già una idea precisa di quello che sarebbe potuto essere a margine di una carriera davvero funambolica (forse troppo)?

Sapevo che sarebbe stato un pezzo di musica elettronica, strumentale, pensato per essere suonato per quella situazione. Le prime volte che ci siamo scritti per “Vapore” era in studio, fuori Tokyo, per registrare un nuovo album di canzoni che sono molto curioso di ascoltare. O’Rourke ha toccato, come dici, in modo quasi istrionico una serie di generi che ama da sempre (e che ha contribuito, in maniera non marginale, a rimettere sotto i riflettori e far riemergere). Forse quello che tu chiami “funambolismo” era un aspetto punk che ha coltivato soprattutto nella prima fase della sua carriera: entrare in un genere e dargli un’interpretazione à la O’Rourke. Minimalismo, musique concrète, improvvisazione elettronica, “americana”. Amo profondamente molti suoi lavori, non ultimo The Visitor, che è una specie di monolite di 2001 in chiave soffice. Credo che, sotto diversi punti di vista, sia un artista incredibile.

Più in generale, da parte dei tre che tipo di accoglienza ha avuto l’idea?

Buona. La cosa interessante è che ognuno ha sposato, anche se non apertamente, un lato differente del progetto: Terre Thaemlitz, l’idea di specificità della situazione di ricezione; Momus, l’aspetto di viaggio oriente-occidente, Jim O’Rourke, l’aspetto più meditativo.

Infine: pensi di ripetere questo esperimento?

Magari a Tokyo con artisti italiani!

Vapore