VANDERMARK / DRAKE / TROVALUSCI / CECCARELLI, Open Border

VANDERMARK / DRAKE / TROVALUSCI / CECCARELLI, Open Border

Come aprire il sipario su un abisso siderale: Open Border, un confine aperto, mondi che non sappiamo eppure sono e suonano familiari e che torniamo a visitare con grande gioia nell’ascolto. Nell’ottobre del 2018 alla chiesa di San Giacomo di Forlì, Area Sismica metteva in scena la terza edizione del Forlì Open Music Festival. L’anno scorso purtroppo non sono riuscito a esserci (un vero peccato essersi persi tra gli altri la Large Unit di Paal Nilssen-Love), ma ogni edizione è sempre un viaggio nelle musiche, senza steccati, con uno sguardo capace di trovare spigoli, suggerire prospettive, invitare alla visione.

Questo quartetto stellare, assemblato proprio da Ariele Monti (deus ex machina del locale di Forlì), chiuse l’edizione di due anni fa con un live da brividi che ora (editato) diventa un vinile  12” ( e download) per la Audiographic Records di Ken Vandermark, che produce il lavoro assieme ad Ariele Monti ed Area Sismica. Quanto ascoltammo dal vivo e risentiamo adesso su supporto fu il frutto saporito e proibito del primo incontro in assoluto tra questi pesi massimi: Ken Vandermark ai sassofoni ed Hamid Drake alla batteria a presidiare il lato avant-jazz del territorio, Gianni Trovalusci a flauti e tubi sonori (a cena poi la sera del concerto mi avrebbe raccontato che erano i tubi di una tenda… quando si dice il genio) a sondare le lande della contemporanea e Luigi Ceccarelli, che si rivela il vero stregone, a processare il suono degli altri tre in diretta, aggiungendo scientifico delirio al delirio, luminosa confusione alla confusione. Musica pagana e colta a braccetto nell’Iperuranio, silenzi densi e tesi, appostamenti, fughe, agguati, radure, fantasie arcaiche e proibite, lux aeterna, tamburi. Grazie alle elettroniche astratte e puntualissime di Ceccarelli il suono si rifrange in pozzi senza fondo; la pioggia acustica di tenore, flauto e percussioni si fa iperreale, sogno in filigrana. Il clima a volte ricorda un Threadgill più ispido, poi ci sono esplosioni come in Interstellar Regions di Coltrane, con i live electronics ad aggiungere quarti di stranezza e di imprendibilità, ma ogni riferimento è vano perché la musica che ascoltiamo è per davvero nuova ed inaudita, da brividi. Trovalusci ai tubi sonori è uno sciamano in accademia, il sax tenore si tramuta in un violoncello, è il suono di una perenne metamorfosi, una crisalide free che spicca il volo come farfalla contemporanea. La sensazione netta è che questo sia un incontro musicale importante, il seme di un frutto proibito e saporito, che nessun Dio potrà impedirci di gustare. Un plauso dunque sincero a chi pensato a far incontrare questi suononauti nello spazio, permettendoci di salpare con loro. A tratti le orecchie si immaginano la musica dei pigmei suonata da Stockhausen, il cuore ascolta discorsi antichi e nuovissimi, segreti inafferrabili, gli occhi restano abbagliati da tanto monolitico, caleidoscopico nitore. Questa musica crea (e ha bisogno di) spazio: una lunga teoria di punti di fuga, un freddo che sa di galassia, di vento cosmico, di buchi neri, epifanie delicate e potentissime, suoni in perenne movimento, gravidi di domande, vaghi e narrabondi eppure saldi nella loro deriva, filosofica e orgiastica, inarrestabile, fluida, naturale come un respiro. Musica che sembra la trascrizione in partitura di un libro di Nietzsche, spietata e maledettamente umana.  Trentacinque minuti semplicemente strabilianti.