UADA, Cult Of A Dying Sun

Sono ormai diversi anni che il cinema e la musica si stanno muovendo lungo un percorso definibile come “revival”: “Drive”, “Stranger Things” (anche “Ash vs Evil Dead” o “Cobra Kai”), il filone retro-wave (Perturbator, Zombi…), John Carpenter come compositore di colonne sonore, la riesumazione di “Twin Peaks”. Anche nel metal, in tempi recenti, ci sono stati dei tentativi di recupero: la New Wave Of Traditional Heavy Metal, che vanta gruppi e album che sembrano usciti direttamente dagli anni ’80, la “nuovissima” etichetta dungeon synth, appiccicata su band come Enid, Mortiis, Summoning, Neptune Towers, Fata Morgana, Pazuzu e tanti altri per i quali all’epoca si usava la definizione scarna di ambient-black metal. Alcuni, anche unici nel loro citazionismo, hanno provato a fare del “revival” quando ancora questa parola non era così ben connotata: i Lunar Aurora, Nefarious (recuperando i primissimi Emperor) e i Thulcandra (recuperando platealmente i Dissection). Questo per dire che oggi questo tendere verso il passato è così forte che è in grado di catapultarci all’indietro fino alla sorgente originale e talvolta di cambiarla perfino in un nuovo nome o codice. Ecco che qui subentrano gli Uada, formazione dell’Oregon che non è passata inosservata col precedente Devoid Of Light e che ora segna la doppietta con Cult Of A Dying Sun sotto Eisenwald Records. A uno sguardo superficiale possono sembrare i cugini di tante formazioni cascadian metal (complice esclusivamente la zona geografica), ma fin dagli esordi hanno pensato di scartare qualsiasi legame con il post-rock, il post-core, i rallentamenti cerebrali dei Wolves In The Throne Room o dei vicini Agalloch, scegliendo di essere ben più diretti e old-school.

I quattro di Portland chiamano ancora Peter Beste dietro la macchina fotografica, ben consci del fatto che lui ha elevato il black metal al rango di arte internazionale, facendolo entrare nelle gallerie. Richiamano anche Kris Verwimp ai pennelli, uno che curò gli artwork di decine di band anni ’90. Questi potrebbero anche essere i piccoli passi di un citazionismo che ormai esiste da anni, ma la band lo sviluppa – senza dunque trasformarlo in plagio – pescando continuamente dall’immaginario collettivo di qualsiasi metallaro di trent’anni e rimescolandolo a regola d’arte. “The Purging Fire” miscela sapientemente Naglfar, Marduk e Satyricon, rifinendoli con delle tinte epiche e heavy senza sovrastare mai il genere madre, che è il black metal; “Snakes And Vultures” o la title-track, dal canto loro, non sono molto diverse da quelle di primissimi Sentenced, At The Gates o In Flames, quando nuotavano nelle acque più melodiche del metal estremo scandinavo. Deliziosa anche la produzione, che rinuncia alle classiche chitarre zanzarose, udibili nei rispettivi debut di ogni band citata, in favore di un risultato più corposo, denso di tonalità medio-alte e mai stucchevole. I blast-beat emergono sempre nel momento giusto, i riff sono efficaci evoluzioni dei vari Emperor, Kampfar o Arckanum, e talvolta sono raddoppiati come solo la NWOBHM sapeva fare. Il perfetto bilanciamento fra heavy e black metal assume così quelle forme epiche e malinconiche tanto care al Nord Europa di oltre vent’anni fa; “The Wanderer” è un malinconico intermezzo strumentale fatto di assoli e arpeggi acustici: un’altissima citazione emperoriana che paga tributo agli innumerevoli interludi del passato. Se “Blood Sand Ash” ricorda i migliori Dissection, mentre gli ultimi pezzi di questo gioiellino virano anche spesso sui lati più viking, ma senza esagerare: basta sentire le tracce di chiusura per veder apparire il fantasma dei Windir.

Gli Uada sono l’insieme di tutte le band che abbiamo amato e sono il gruppo che tutti avremmo voluto essere in sala prova a 16-17 anni.