TSO, Hearth

Avevo parlato una prima volta dei TSO ormai quattro anni fa. Riassumendo: grunge su Sub Pop e SST prima del successo mondiale, qualche vitale variazione sul tema, sincerità e tecnica che vanno a braccetto (non è semplice).

Hearth mi sembra un disco più maturo e controllato di In-sanity, che già era ok: il sound è all’incirca lo stesso (nel senso che loro continuerebbero volentieri a vivere in un periodo preciso degli anni Novanta), ci sono belle melodie sotto le distorsioni, nessun autocompiacimento e addirittura una benvenuta concisione. Basta sentire come vanno giù veloci i primi tre pezzi, “Icarus” (buono il video) – “Corvee” – “Card Game”: riecheggiano senza copiarlo quello che avremmo ascoltato di gusto quando vestirsi di stracci costava un sacco di soldi. Questa capacità di sintesi non ha impedito agli archi di entrare verso la fine dell’album, tanto per rimanere sul discorso del mettere d’accordo raffinatezza e onestà. Insomma, per osservare la cosa da un altro punto di vista, il fatto che i riferimenti siano chiari non vuol dire che i TSO non abbiano un loro carattere. Vorrei trovare dei difetti gravi che giustifichino la poca risonanza che ha la band: come per i concittadini OMZA (a Trieste vanno gli acronimi…), il problema semplicemente è che questo non è il loro tempo, la gente sta ascoltando/cercando altro. Certo, a volte vorrei sapere cosa succederebbe se avessero un’immagine/immaginario un po’ più d’impatto e fossero più scuri e pesanti; altre volte, all’opposto, sarei curioso di sapere se in tasca hanno una vera e propria hit col chorus ruffiano. Di buono c’è che questi sanno suonare, quindi non hanno problemi – come accadeva prima della pandemia – ad andare in giro, salire su un palco e “tenerlo”. La strada è difficile, ma non impossibile per chi è solido come i TSO.