Tre dischi Dissipatio (più un nastro)

Dissipatio è l’etichetta fondata nel 2020 da Nicola Quiriconi: fino ad ora una manciata di uscite – ne conto nove – che abbiamo da subito seguito con un certo interesse, come è d’uopo nei confronti di chi propone un discorso musicale che solo per pigrizia potremmo definire “difficile”, ma che in realtà spiazza proprio per la sua semplicità, che è quasi una ricerca del quotidiano nella creazione musicale. Gli artisti pubblicati da Nicola sono un misto di nomi vecchi e nuovi con qualche volto lasciato deliberatamente in penombra.

Tre le nuove uscite cominciamo da Nocturne Incertain, due lunghi brani a firma Bruno Duplant, prolifico compositore dal nord della Francia, titolare anch’egli di una sua etichetta, Rhizome.s, e Julien Héraud, sassofonista convertitosi ai synth modulari. La prima traccia è fitta e omogenea, realmente notturna tramite field recordings, synth, nastri, vibrazioni e saturazioni varie; la seconda si riallaccia per sonorità alla precedente e, sebbene più frammentata, disturbata e caotica, presenta per converso un qualche tentativo di ricerca della melodia oltre che una maggiore complessità.

Ambasce è Alberto Picchi, in VipCancro assieme a Quiriconi, l’Isola Santa è un borgo medioevale situato sulle Alpi Apuane (trasformato ormai, ahimè, in un albergo diffuso), il quale si affaccia su un bacino idrico che viene periodicamente svuotato e lascia così riaffiorare le antiche abitazioni. Le immagini dell’artwork rendono perfettamente il tenore del disco: il capovolgimento, la rifrazione di paesaggi (in)naturali, colorazioni sature, una percezione alterata del reale trascritta in musica, ritratti sgraziati e disgraziati (“Isola Santa”), il ticchettio che si sfalda nel ritmo (“Diga”), una natura morta in decomposizione, l’organico e l’inorganico che si compenetrano, si confondono, l’umano che si fa animale e ne imita la grazia (“Lingua Degli Uccelli”), un canto e controcanto fra field recording e macchina, quasi indistinguibili fra di loro, macchie di suono (“Estasi”), una presenza umana che si indovina appena (“Oltre Lo Zero”), il torpore, una stanchezza dolce, un titolo (“Operaio”) che forse si rifà al lavoro lasciato ormai alle spalle. Notevole.

The Star Pillow è Paolo Monti, e anche di lui ci siamo occupati spesso e volentieri: We Were Never One nasce come supporto musicale per l’omonima performance della coreografa viennese Karin Pauer. Tutti e cinque i brani di cui si compone il disco presentano una certa circolarità e sembrano finire dove hanno cominciato. Nel mezzo il suono si distribuisce in pozze, nubi, folate, mareggiate, la chitarra di Paolo da ferina si fa melodiosa, poi disturbata, poi disturbante, melanconica e poi nervosa.

Mentre l’identità di Heimito Künst è ancora avvolta nella nebbia, è uscito il suo secondo lavoro, pubblicato su nastro dalla californiana Shrimper (The Mountain Goats, Woods, Jad Fair, Amps For Christ, addirittura Sebadoh in catalogo) ma distribuito in Europa da Dissipatio: un pastiche di bordoni rancidi, barlumi di intelligenza umana, trombe, tromboni, organo e sintetizzatore. La cassetta suona come qualcosa di singolarmente lontano nel tempo e nello spazio, esotico sì ma inquietante: i titoli si rifanno ovviamente al capolavoro dell’inventore del postesotismo Antoine Volodine e, in effetti, il sound potrebbe benissimo essere quello del fonografo di Nonna Udgul, l’anziana custode della pila atomica di Terminus Radioso.