TRAP THEM, Crown Feral

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Crown Feral è il quinto album dei Trap Them ed è stato registrato da Kurt Ballou presso i God City Studios di Salem, una garanzia per quanto concerne le sonorità hardcore più estreme.

Il quartetto di Seattle è forse la band più importante della sua generazione: non dimentichiamoci, infatti, che prima del grande successo di Nails e All Pigs Must Die, i Trap Them sono stati i primi a mescolare in un certo modo thrash, punk, metal e doom, creando e definendo un intero filone musicale. Mi è capitato di vederli un anno fa al Deathwish Fest a Ginevra, con Young And In The Way e Converge. Osservandoli, ascoltandoli, rimanendo intrappolata nel loro live furente e distruttivo, sporcata dal sangue di Ryan che, come è solito fare, si è sfregiato il volto a colpi di microfono sulla fronte, ho pensato che sono loro i degni eredi dei Converge.

Il loro primo ep, Cunt Heir To The Throne, poneva le basi di quell’intreccio di punk, death’n’roll e grindcore che sarebbe diventato il loro marchio distintivo, poi sono arrivati i capolavori Darker Handcraft/Blissfucker, che li hanno spinti verso meandri ancora più oscuri e rabbiosi, frutto di una produzione accurata e di un’architettura dei brani sempre più complessa ma che manteneva però quel carattere di “urgenza” che li ha resi uno dei gruppi con l’impatto live più devastante.

Crown Feral si apre con “Kindred Dirt” ed “Hellionaires”, due brani che, a mio parere, si completano a vicenda. Se, infatti, il primo pezzo si pone come una vera e propria apertura, una sorta di narrazione che viene sostenuta dalla voce graffiante e dura di Ryan e da un sottofondo inizialmente “ambient” che sprigiona poi un riffing fangoso e avvolgente, è “Hellionaires” che ci sbatte in faccia quello che sembra essere il leitmotiv di questo disco: un ritorno alle origini, un concentrato di odio e brutalità sotto forma di un metal estremo che affonda le sue radici nelle sonorità heavy più dure e nel noise, dando vita a un cosmo espressivo difficile da eguagliare.
“Prodigala” è probabilmente il sottofondo che vorreste per uccidere il vostro capo: nichilista, tagliente, ricco di stacchi e di riff “à la Ballou”. Forse è il mio pezzo preferito del disco. Il trittico “Luster Pendulums” – “Malengines Here, Where They Should Be” – “Speak Nigh” procede esattamente come da aspettative: un caos strumentale devastante, merito di un songwriting massiccio, pesante, ma compatto e vorticoso. Con “Twitching In The Auras” le cose si fanno serie, molto serie: messa da parte la follia distruttiva dei primi pezzi, ci viene consegnato uno dei momenti più cupi ed enigmatici del disco, capace di mischiare “marciume” sludge e riff metal in un brano che può essere visto come il turnover di questo lavoro e che, nonostante il cambio di velocità, è forse uno degli episodi che esprime il maggior malessere. A questo punto la cassa dritta di “Revival Spines” ci riporta su binari più inviperiti che esplodono su “Stray Of The Tongue”. Non ci sono momenti di leggerezza, piuttosto un suono nidificato sul pessimismo più nero e sul rumore, un impatto sovversivo che unisce l’intransigenza comunicativa dell’hardcore alla violenza melodrammatica del metal. Il finale è lasciato a “Phantom Air”, un pezzo che sembra essere legato al primo brano dell’album e dunque voler dare completezza circolare all’insieme, un disco che farà sicuramente parlare. Capita, infatti, che ci siano lavori che pongono nuove regole al genere. In questo caso, non si può che pensare di genuflettersi dinnanzi ai Trap Them, porgendo al gruppo la corona che gli spetta.