TRANS UPPER EGYPT, Tue

TRANS UPPER EGYPT, Tue

In principio era Borgata Boredom, scena musicale – farlocca, ma con malcelato compiacimento – nata a Roma e composta da una pletora di progetti, molti dei quali durati il tempo di buttare giù una birra media: riprendendo in mano la raccolta compilata nel 2011, che traccia un po’ i confini della vicenda, ci si accorge che la maggior parte delle sigle protagoniste è da tempo scomparsa dai radar. Nel novero dei reduci, seppur passati per un cambio di line-up, figurano i Trans Upper Egypt, fra i fiori più belli di quella sconclusionata stagione in cui si giocava a fare la no wave all’ombra della Tangenziale Est.

Ad accomunare le realtà coinvolte nell’operazione erano un’etica lo-fi, che informava di sé il tutto, e il rifiuto di ogni paletto di genere, tradotto in incerte commistioni e bizzarri esperimenti. I Trans Upper Egypt, fin dal loro disco d’esordio North African Berserk, un bijoux dell’Italia musicale underground dell’ultimo decennio, e dal seguito, entrambi pubblicati dalla texana Monofonus Press (in catalogo anche Sun Araw e The Rebel), riescono a tenere bene insieme indole cosmico-psichedelica, attitudine krauta e spirito punk: qui li ritroviamo più arrabbiati del solito. Il basso ipnotico di Bob Junior (Holiday Inn/Bobsleigh Baby) rimane una granitica certezza, la spina dorsale sulla quale si innervano tutti gli altri strumenti. L’ingresso definitivo di Simone Donadni dei Rainbow Island alla batteria, invece, dona alle ritmiche qualche spigolo in più: il suo drumming nervoso, per molti versi antitetico a quello sornione del vecchio batterista Cheb Samir, finisce per trascinare i pezzi verso una cattiveria inedita. Un altro tratto fortemente distintivo del suono dei Trans Upper Egypt era l’oscillatore, un tempo manovrato da Luca Tanzini (il quale si occupava anche della veste grafica e dei video, oggi attivo principalmente con il suo progetto musicale solista Tab_Ularasa): questo strumento che solcava impunemente i pezzi dei primi due dischi viene qua e là rievocato da Leo Non (WoW!), che, oltre che cantare, mette mano ai synth, lancinanti e distorti tanto da non far accusare affatto l’assenza di una chitarra.

A pubblicare stavolta ci pensano due realtà romane come NO=FI Recordings e My Own Private Records in edizione limitata a 200 copie; la copertina – bruttina, in verità – è opera invece di Matteo Pozzi dei Cacao.