Tomorr: zappe, fuzz e sudore

Probabilmente non avrete sentito abbastanza parlare dei Tomorr (qui trovate la recensione al loro primo disco), trio empolese che sta dando una spolverata al doom nostrano rivelando un tassello mancante nel genere che loro definiscono “rural doom”. L’unione di forti valori ideologici legati alle tradizioni con una musica ruvida e avvolgente traccia una profonda linea di partenza per quello che si spera possa essere un percorso ricco di ricerca sonora e culturale. Incuriosito dai diversi stimoli proposti nel loro debutto discografico mi è sembrato doveroso, avendone la possibilità, approfondirne alcuni punti per aver accesso al cuore del monte Tomorr.

Tomorr, il vostro primo disco, sembra nascere dalla necessità di condividere uno stato d’animo altrimenti difficile da spiegare a parole. Cosa vorreste che arrivasse all’ascoltatore del vostro sound?

J Meister (chitarra, voce): Tomorr nasce anche insieme al bisogno di rievocare antiche sacralità, riti, o usanze, ormai completamente dimenticate. Guardare verso il cielo, ma anche raccontare cosa fanno gli uomini sotto esso. Non esiste posto migliore della cima di una montagna per poterlo fare, non esiste modo migliore dell’arte, della musica in questo caso. Gli antichi utilizzavano liuti, flauti, tamburi. Facciamo praticamente lo stesso, ma impiegando giusto un po’ di corrente elettrica, sembrano tutti sordi al giorno d’oggi.

I due anziani scolpiti dalla vita in copertina sono incredibili e azzeccatissimi: sembra che conoscano antiche leggente che spero voi possiate comprendere e tramandare per noi. Chi sono? Da dove proviene quella foto?

J Meister: Gli anziani hanno sempre qualcosa da raccontare, persino quando si ripetono. La favola o il racconto non perdono mai di fascino, quasi come se fosse la montagna stessa a parlare. Esiste un detto albanese: “Le uniche cose che è concesso non udire da un anziano sono i suoi peti”. Se la nostra musica fosse antropomorfa, sarebbe sicuramente un signore anziano che fuma la pipa. Purtroppo non abbiamo nessun legame con quei due giovanotti in copertina, l’immagine è stata presa dal web.

I crossover culturali sono sempre fonte d’ispirazione per chi compone e motivo d’interesse per chi ascolta. Nel vostro caso c’è Jurgen che ha origini albanesi, Chero è nato in Puglia e Mostro è empolese. In che modo quest’unione ha influenzato la vostra musica? Che rapporto c’è tra queste terre, sia sul fronte musicale sia su quello civile?

Chero (batteria): L’unione è prima di tutto di tipo personale e affettivo, siamo cresciuti insieme. Oltre che condividere praticamente lo stesso interesse musicale, abbiamo avuto l’immensa fortuna di approfondire le tradizioni e la filosofia di questi tre nostri luoghi di provenienza. Mostro studia archeologia, Chero filosofia e J Meister è un Albanologo a nero. Il mare è lo stesso, e pure gli olivi si assomigliano. Dalla cima del Tomorr si vede tutto poi, quasi come se J avesse scelto dove andare, Mostro fosse già lì e Chero li avesse raggiunti. Non è stato difficile mescolare queste tre zolle di terra, il fiore che ne è nato, ha germogliato con della musica profumatissima. Profumata di sala prove, erba, birra, sudore, flatulenza e frittata cucinata da Chero.

Mi sembra di percepire un forte legame con le tradizioni delle vostre terre. Cos’è che vi affascina della cultura tradizionale? E cosa vi ci ha fatto avvicinare?

Chero: Crediamo che la traduzione di rappresentazioni culturali in musica contemporanea giochi un ruolo compositivo molto più forte e suggestivo, sia da parte dell’ascoltatore, sia in primis da parte di chi compone. È una ricerca svincolata dal metodo scientifico, come radici che prendono e trasformano nutrimento naturalmente da ogni terreno. Non è un fermarsi alla stretta reinterpretazione dei fatti, spesso si tratta di creare una cultura da zero nello stesso momento in cui ci approcciamo alla diversità o, come disse qualcuno, di prendere più profonda coscienza dei nostri limiti culturali. Siamo sempre stati molto interessati al folklore, in particolare ai “fossili” che tutt’oggi permangono silenziosamente accanto a noi, concreti o immateriali che siano.

Questo non è di certo il periodo più roseo per far uscire del materiale musicale. Come mai questa scelta?

Chero: Siamo stati lenti, scoraggiati, guardandoci indietro anche terrorizzati. Questa è la nostra prima uscita impegnata, sia come Tomorr sia come J, Mostro e Chero. Volevamo che tutto riuscisse al meglio delle nostre (scarse) possibilità; quest’ambizione ha portato l’effetto totalmente contrario, ci siamo lasciati andare all’immobilità tesa tra le difficoltà materiali e l’indecisione, concludendo la densa cornice del disco in due anni (non smetteremo mai di ringraziare tutte le persone che ci hanno sopportato e supportato durante questo periodo). Giunti alle porte della pandemia di marzo siamo paradossalmente riusciti a dare accelerazione al progetto, avremmo voluto presentare il tutto dal vivo, in una situazione contenuta, in famiglia, magari qui a Empoli, ma non terminerò la frase.

Prima di tutto questo caos avrete sicuramente suonato in giro, quali sono state le date più memorabili? In Albania, invece, c’è un buon giro musicale? Fateci sognare un paio di live.

Chero: Ormai suonare dal vivo si colloca ambiguamente tra sogno e incubo. Nel primo anno di Tomorr siamo riusciti a fare davvero tanti concerti in medie e piccole realtà toscane, probabilmente uno dei concerti più belli si è svolto al Galeone, squat pisano: J era talmente su di giri da aver lasciato amplificatori, pedali, chitarra, fegato, sparsi tra una stanza e l’altra. Un fedele amico si prese la briga di farsi Pisa-Empoli in treno per riportargli tutto.

Per quanto riguarda l’Albania abbiamo solo competenze virtuali, sembrano esserci tanti ascoltatori e pochi musicisti (infatti il nostro lavoro ha avuto un’ottima accoglienza, l’ibridazione è stata notevolmente apprezzata). Siamo fiduciosi per il futuro, sarebbe un onore intraprendere un tour est europeo partendo proprio da Kosovo e Albania, un miracolo invece suonare proprio sul Tomorr durante un raduno bektashi.

Il vostro disco ha prettamente uno stampo Doom ma con qualcosa di tribale/folkloristico che gli dà una marcia in più. Se dovessi dare una definizione tramite allegoria vi assocerei al sedimento tra le rughe di un contadino a fine giornata. Qual è il processo di creazione dei brani? Cos’ha motivato la scelta di usare la lingua albanese per alcuni brani e l’inglese per altri?

J Meister: Capita spesso di suonare in situazioni non prettamente legate al voler/dover comporre, lontani dalla sala prove, quasi come fosse parte integrante della giornata, un accompagnare i momenti, a volte inevitabile sottofondo, piacevole ronzio. L’improvvisazione ricopre un ruolo fondamentale, siamo figli del blues incazzato e la scala armonica della musica folkloristica dell’Albania del sud ricorda molto le pentatoniche suonate dall’altra parte dell’oceano. La naturalezza con la quale la lingua albanese riesce a comunicare spiccando in mezzo a questo suono è incantevole. Come se un bambino descrivesse l’amore o l’odio, la fatica, il dolore con le sue ingenue ed innocenti parole. Questa semplicità per descrivere qualsiasi cosa è affascinante. Dopotutto la lingua albanese è tra le più antiche del mondo, ed è stato l’unico mezzo spesso per raccontare di eventi o, attraverso la isopolifonia, ovverosia il canto, tramandare miti e storie.
Decidiamo di utilizzare l’inglese o addirittura “isolare” il tutto allo strumentale per quella tipologia di brani dove il protagonista è la linea melodica dello strumento stesso, “contaminata” da assoli, e ritmi piuttosto moderni. Giunge dunque il bisogno di mettere per iscritto tutto ciò, e con particolare determinazione a volte riusciamo a fondere tutti questi metalli diversi fra loro. Se la determinazione dovesse scarseggiare chiediamo l’aiuto a qualche birra.

Come, dove e per quanto tempo avete registrato?

Mostro (basso): È ormai passato un bel po’, abbiamo registrato tra novembre e dicembre 2018 all’Orange recording studio di Albinatico (PT) gestito da Zven, che ha curato, tra gli altri, le produzioni di Stoner Kebab, Idlegod, Ghost Empire. Nel giro di una settimana abbiamo completato registrazione e mixaggio. Tutto in presa diretta, poi voci, doppiaggio delle chitarre e qualche altra sovraincisione. Zven ha curato anche il mastering. Un’esperienza più che positiva, consigliamo Zven a tutti i suonatori di musica senza fronzoli, come va di moda dire adesso.

Quali sono gli artisti che più vi hanno influenzato sia come band sia come singoli individui?

Mostro: Il background che tutti condividiamo sono sicuramente i Sabbath, che sono stati la nostra stella polare. Aggiungo Sleep ed Electric Wizard, Om, in generale le sonorità heavy anglosassoni e last but not least la musica folkloristica albanese, che ci ha veramente aperto un mondo. Questo per forzarmi a definire un nucleo centrale da cui siamo partiti, l’idea guida per iniziare a fare musica insieme. Condividiamo tanti ascolti simili, ma devo dire che fortunatamente i nostri approcci alla musica sono piuttosto diversi. Sintetizzare in poche righe gli artisti che ci hanno influenzato singolarmente è un’impresa che non auguro a nessuno e direi di rimandare questo discorso a quando potremmo fare quella chiacchierata davanti una bottiglia di vino.

Personalmente vi avrei visti volentieri assieme a band come Ufomammut. Con chi vi piacerebbe collaborare e condividere il palco in un futuro prossimo?

Mostro: Ci sono tantissime band con cui vorremmo condividere il palco nel 2057, ma sarebbe particolarmente bello ricominciare con quelle a cui siamo più legati, sia umanamente che a livello di sound, quindi direi Stoner Kebab, Idlegod, Vij, Otakusuite. Chiaramente anche poter spalleggiare dei “nomi” sarebbe una bellezza, personalmente mi piacerebbe suonare con i Messa per esempio, che sono veramente una punta di diamante del doom terrestre.

Avete progetti imminenti?

Mostro: Cosa difficile avere progetti in questo tempo. Riuscire a tornare a suonare e promuovere “Tomòrr” live sarebbe una gran cosa, sentiamo che questo disco ne ha bisogno, così come ne abbiamo bisogno noi. Stiamo inoltre valutando l’uscita su altri supporti e un videoclip, staremo a vedere nei prossimi mesi!

Come vivete e cosa pensate di questo periodo storico?

Mostro: Mah, tentiamo di stare aggrappati quanto possibile a ciò che non riusciamo a fare a meno e non si tratta di cose fisiche (frase trovata nei baci perugina). La retorica mediatica non ci appartiene e credo che questo periodo abbia dato la botta di grazia ad un bel po’ di cose fondamentali ed è difficile essere fiduciosi riguardo al futuro. Siamo convinti che l’emergenza sociale si sia andata ad ingigantire e per curare queste cose non esiste un vaccino. L’unica cosa che posso dire è che forse questo periodo ha aiutato a confermare cosa veramente è essenziale per noi e credo che ripartiremo da quello.

Concludo con una domanda che vuole risposta libera: il vostro accostamento alle montagne piuttosto che ai palazzi è alquanto evidente; la pietra tornerà a dominare sul cemento. Siamo di fronte ad un ripopolamento di quelle zone rurali abbandonate all’edera da parte di giovani stanchi della frenesia cittadina. Qual è la vostra visione?

Chero: Empoli è stata il nostro tesoro e la nostra catastrofe, statica e stagnante, non è una città per “giovani”, non è neanche propriamente una città, diciamo che non-è; d’altro canto non abbiamo mai vissuto direttamente sulla nostra pelle quella frenesia cittadina, quel timore più meccanico che mentale e quell’ansia generalizzata, patologica nelle società della prestazione.

Il processo di cementificazione del mondo sembra ormai irreversibile, lo stesso Tomorr ne subisce le conseguenze. Abbiamo potuto osservare da vicino il progressivo smembramento della montagna e conoscere un giovanissimo gruppo di attiviste, sbalordite dall’interesse nella loro causa da parte di forestieri d’Occidente. La situazione contemporanea è sicuramente molto complessa, contraddittoria, a tratti inebriante, soprattutto per chi, con meno consapevolezza, è facilmente sottomettibile dalla moneta a causa di una pericolosa illusione: progresso, accelerazione virtualmente infrenabile. Non ci definiremmo politicamente schierati, né radicalmente alieni ai conflitti ideologici oggi in atto, sicuramente pensiamo che la preservazione culturale e ambientale siano un’importante e condivisibile forma di lotta e resistenza sociale, spesso ignorata dagli stessi individui che pongono la lotta di classe al centro della loro azione. Questo non significa propriamente bloccare e rifiutare il progresso, quanto rompere il sistema di asservimento dell’uomo al progresso stesso, conferirgli nuovamente il suo status di strumento, di braccio, siamo noi a dover essere testa.