THE WINSTONS, 1/10/2017

Correggio (RE), I Vizi Del Pellicano. Ringraziamo di cuore Enrico Alvino per averci consentito l’uso delle sue foto per corredare il report.

Missione nobile ma scivolosa quella di  ricreare la magia della scena di Canterbury, in particolare quella della fase in trio dei Soft Machine, e specie quella con Kevin Ayers al posto di Hugh Hopper, come documentato nello spettacolare Middle Earth Masters, edito dalla benemerita Cuneiform nel 2006. Sappiamo a quale preziosa fonte si abbeverano i Winstons, ci rifocilliamo nello stesso posto da tempo, quindi possiamo capire qual è la febbre che anima il loro suono (perché del suono di una febbre si tratta). All’attacco del primo riff realizziamo immediatamente dove siamo, ma il gioco dei rimandi e delle parentele, pur del tutto evidente, lascia comunque posto a una musica ben scritta, ottimamente suonata, divertente e non ingessata, per cui la missione è senz’altro compiuta. I nostri infatti sono abilissimi nel  ricreare quel delicato e selvaggio incrocio di menti aperte e mani sagge e libere, sanno riportarci ai fasti di una musica capace di unire il jazz di Mingus e Monk (il drumming aereo e imprendibile di Wyatt, il suo canto di sirena stanca ma mai arresa), le suggestioni della musica europea di Stockhausen e Berio, la ruggine rock del mitologico organo col fuzz di Ratledge (raramente mi è capitato di sentire qualcosa di più bello, pieno e trascinante in vita mia), la capacità, pur in un coacervo di influenze così articolato, di creare comunque composizioni che avessero la forma della canzone, che fossero ariose e cantabili, innodiche oltre che avventurose, melodiche oltre che spericolate. La stessa identica cosa accade nella scrittura dei Winstons, i cui brani in sede live guadagnano poi un surplus di potenza e incisività.

Atlantide stava oltre il Canale della Manica, nella seconda metà degli anni Sessanta, ed il loro  desiderio è quello di tramandare quante belle cose avesse da dire quella civiltà. Una civiltà che sorse in un paesaggio di fiori selvaggi (Wilde Flowers era il nome della prima incarnazione della macchina morbida) e seppe rispondere in musica alla patafisica, creando mondi potenziali, scontri tra titani, basilischi favolosi. Un ibrido che ebbe davvero del miracoloso e al quale i Winstons si richiamano già a partire dalla formula a trio che  vede Enrico Gabrielli (col quale abbiamo da poco fatto una lunga intervista in merito a un altro aspetto della sua eclettica vita di musicista a 360  gradi), nelle vesti di Mike Ratledge: tastiere vintage, un suono assolutamente fedele a quello che fu, una padronanza eccellente di quel vocabolario (i timbri, le progressioni armoniche, la struttura delle canzoni, il loro modo di sedersi su ariose e malinconiche linee melodiche dopo aver scatenato un sabba di distorsioni) e degli strumenti (in alcuni frangenti imbraccia anche il sassofono, come fosse pure Brian Hopper, più che Elton Dean, mentre sulle tastiere si muove con disinvoltura tra tasti bianchi e note nere, pedali in ritmo dispari, fughe modali e momenti di puro impressionismo).

Il posto di Kevin Ayers tocca a Roberto Dell’Era, anima più melodica della band,  noto ai più per la sua militanza negli Afterhours, molto a suo agio qui nella doppia veste di bassista e cantante (tutti e tre nella band danno un importante contributo vocale e non esiste una voce leader). Lino Gitto invece è un Wyatt senz’altro più roccioso e meno jazzy, impressionante nella somiglianza all’angelo caduto di nome Robert quando passa a tastiere e voce nell’ultimo pezzo del concerto (“Tarmac”).

Il trio approda nella prima uggiosa domenica di ottobre nel bellissimo scenario agreste de I Vizi Del Pellicano, un circolo Arci perso nei campi nella provincia di Reggio Emilia. Ad aprire il concerto c’è Giovanni Ferrario, produttore di lungo corso che si presenta in questa sede in duo, lui a chitarra, voce e basi, accompagnato da una batterista. Nei momenti migliori tornano alla mente i Brad di Shawn Smith, oppure i Deconstruction di Dave Navarro (autori di un unico disco secoli fa), e in generale ci troviamo dalle parti di un pop-rock ben costruito, robusto e suadente, catchy ma non banale, che però soffre un poco della scarna formula in duo e non lascia grandissima memoria di sé, a dire il vero.

I Winstons attaccano con “Nicotine Freak”, l’apertura del loro disco omonimo: armonie a tre voci,  elaborate ma non arzigogolate, sorrette da una tastiera languida che sa di bruma e di tè delle cinque, poi la nebbia si dirada e parte un groove immediato e massiccio: gran pezzo. Siamo invece dalle parti dell’album Fourth dei Soft Machine con “Diprotodon”, incalzante e solenne, puro distillato jazz-rock, altra canzone molto riuscita. Sempre molto curati gli arrangiamenti e l’equilibrio tra le parti strumentali e le voci, che sovente tacciono per lasciare ampi spazi liberi per le esplorazioni delle tastiere, per il batterismo solido e fluido al tempo stesso di Gitto, per il basso puntuale e sornione di Dell’Era. Vagamente barrettiana, invece, “Play With The Rebels”, anche più classicamente italiana (nella direzione della library music già ampiamente esplorata da Gabrielli coi Calibro 35). Viaggio nel suono a tre dimensioni. Benvenute, calde e pastose le numerose fughe psichedeliche che fioriscono sui pezzi (a un certo punto torna sul palco anche Ferrario e i quattro planano, senza mai perdere la rotta,  in un’oasi psichedelica luminosa) e notevole la capacità della band di fermarsi sempre un attimo prima di sbrodolare eccessivamente. In definitiva i Winstons sono una macchina spaziotemporale dai meccanismi perfettamente oliati, il viaggio a ritroso è stato piacevolissimo ed a tratti trascinante, risuonano evidenti l’amore e la devozione per quelle musiche (oltre a Soft Machine, potremmo aggiungere probabilmente anche il l’Ayers solista, i Caravan, i National Health, ma siamo sicuri che la lista, chiedendo a loro stessi, potrebbe essere sterminata,  tanto la passione forte e verace per tutta la scena di  Canterbury è lampante), che vengono riproposte con bella attitudine e verve personale.

Non sono né mai saranno hipster, queste sonorità, e proprio per questo  va dato grande merito a questi signori di  riproporle in modo convincente, sebbene forse a tratti un poco troppo calligrafico, e non si sa mai che qualche neofita, dopo averli ascoltati, sia preso dalla voglia di risalire alle fonti. Alcuni dei loro pezzi, ad ogni modo, hanno l’assoluto pregio di non sfigurare per niente al cospetto delle muse ispiratrici, e scusate se è poco.  Un’ora abbondante di lezione di musica, nel senso migliore del termine.