THE THIRD EYE FOUNDATION, Wake The Dead

Me lo ricordo dai tempi del Sesto Senso a Bologna (chi è come me sui quarant’anni sa perfettamente di cosa parlo), Third Eye Foundation. Erano i tempi delle cassette registrate, della Bristol fumosa, in opposition a quella trip-hop di Massive Attack e Portishead, una nebulosa che annoverava entità fragili e precarie come Amp, Crescent, Movietone, Flying Saucer Attack: musiche perfette per chi voleva smontarsi la testa a forza di canne, svitarla e lasciarla sui gradini di Piazza San Francesco o dovunque altrove, musiche che riflettevano la nebbia dei vent’anni.

“I was young then, feeling awful”, dice Samuel Beckett in un suo racconto, e come dargli torto, che a vent’anni tremare bisogna e si fanno i primi esperimenti, si prendono i primi contatti con la morte, si capisce che tutto un giorno finirà. Ed allora, ecco Wake The Dead, il nuovo disco della Fondazione del Terzo Occhio (che nome magnifico), l’alias elettronico di Matt Elliott, che, come recita la press kit, qui sciorina quaranta minuti di dubstep ipersensitivo. La title-track suona proprio come dei Massive Attack più arcigni e scuri, ma è capace di dispensare lo stesso sentimento dello spazio, tra sincopi di batterie, lunghi piani sequenza, voci eteree, interferenze e suoni molto ben calibrati. “Procession For Eric” è subacquea, abissale, il lavoro sui bassi e sulle percussioni è eccellente, poi entrano un synth e una voce lynchiani, il violoncello apre panorami, il pezzo da terrigno e primitivo fiorisce in qualcosa di etereo e forse un filo didascalico.

“The Blasted Tower”, e sono ululati, preghiere, di nuovo un’eccellente base di drum machine (timbri caldi ed avvolgenti, soluzioni ritmiche sempre intriganti, mai banali), per un mood che ricorda da vicino certe cose della stagione del glitch più gentile o della folktronica (Morr Music? Notwist? da quelle parti siamo): a differenza però che nello zucchero filato di tante di quelle cose, qua, fortunatamente, non ascoltiamo nessuna voce, se non trattata e usata come uno strumento qualsiasi, per cui ogni afflato pop consolatorio resta sullo sfondo, anche se i violoncelli filmeggiano un poco troppo per i miei gusti. Ottimo pezzo comunque, costruito magistralmente.

“Controlled Demolition” è incerta tra ruggine noise e acrobazie di batteria (Raphael Sèguiner, molto bravo, già in tour con pezzi grossi come Nouvelle Vague, Chocolate Genius e Saul Williams) e si regge su un groove non euclideo, malmostoso, e per questo trascinante. “That’s Why è invece un dubstep rinchiuso in una scatola sepolta sotto una montagna di bitume in una discarica di New York (la voce campionata che fa tanto negro power, “ain’t no fuckin’ pigs”), che poi si fa minimale, astratta, perfetta per un dancefloor su Saturno, quasi una versione degli Autechre suonata da un bambino su una tastiera sdentata. Chiude “Do The Crawl”, ancora nera (Haxan Cloak, che però è ancora più scuro, denso e cattivo, è un plausibile termine di paragone, anche se qui siamo su territori più amichevoli, per così dire) e in agile ed elegante equilibrio su un groove nitido, nonostante i suoni volutamente sporchi, tra basslines grasse e formicolii digitali.

Un disco a fuoco, appassionato e fatto con la testa, calibrato ed emozionante, merito, oltre che dalla sapienza del leader, della bravura del polistrumentista e produttore David Chalmin (già avvistato con Dimension X assieme a Chris Corsano e Massimo Pupillo, e Shannon Wright, tra i mille progetti) e del violoncellista Gaspar Craus (Keiji Haino, Joelle Léandre, Mike Reed, Bryce Dressner, questa solo una minima parte dello sterminato elenco di collaborazioni)

Non è ancora tempo di morire.