THE RAPE, There Inside The Dark

Qui, dentro il buio,  c’è la via del nero abbagliante. Sono luci di fanali come nei titoli di coda di un bianco e nero con un che di morbosamente hollywoodiano (allo stesso modo in cui può esserlo Lynch) e ricorda l’aria minacciosa e inesorabile di film come “La morte scorre sul fiume”, capolavoro di Charles Laughton del 1955 con un’immortale interpretazione di Robert Mitchum. Un bel disco di rock sui generis, scuro e obliquo, quello proposto dal trio The Rape, composto da Kathya West (alla quale va intestato anche il concept dell’intero lavoro) a voce, kaoss pad su chitarra, kazoo e armonica, Danilo Gallo (bassista in mille progetti, membro tra gli altri di Guano Padano, fondatore della purtroppo da poco chiusa El Gallo Rojo Records, qui a basso a quattro e sei corde, chitarra acustica e baritono, organo e melodica) e Riccardo Tosi a batteria e live electronics.

Il sipario si apre su di uno sghembo e ossuto teatrino (“The Way Of The Dazzling Dark”) che si regge in piedi sulla vocalità polimorfa e sfuggente della West (capace di assumere molte sembianze all’interno anche dello stesso pezzo): pochi, puntuali gorgoglii elettronici, un basso incalzante e sornione, come un gatto che esce pigramente da una scatola ma poi avanza metronomico e sottile, mentre la batteria resta essenziale e nuda; in seguito il canto si sdoppia e si fa prima languido e poi potente, per una convincentissima ipotesi d’incontro tra una Carla Bozulich mondata delle asperità rumoristiche, una Nina Simone dark e un Tom Waits donna (davvero notevoli la personalità e la capacità espressiva della voce).

Con “I Run” le coordinate non cambiano di molto: si aggiungono languori blues, il clima è sempre notturno, in qualche modo minaccioso; c’è aria di fuga, la voce ansima, la batteria incalza, l’atmosfera è languida e maniacale al tempo stesso. Con “The Rape” siamo davvero dalle parti del maestro Tom di Pomona: un basso da noir anni ’50, rumori di passi, lievi interferenze di melodica e di elettronica, un’apertura che sa proprio di cinema, e un bello sviluppo, limpido e drammatico, senza avere nemmeno un filo di retorica; sei minuti di grande classe in perfetto equilibrio tra languori da Americana e uggia da cieli inglesi o di chissà dove, per una grande canzone.

“A Sliver Of Shade”, scheletrica e dall’inizio quasi western, offre un’inaspettata fioritura melodica, il minuto di “Recluse Reprise” pacifica il cuore (è musica di turbamenti, anche grandi, quella di questo disco) con una nitida, semplice melodia, prima di affrontare i quasi dieci minuti di “The Bride Wore Black”: tastiere solenni che ricordano addirittura gli ultimi Talk Talk, campane come a un funerale degli ultimi, dimenticabilissimi Pink Floyd (ma senza alcuna enfasi, in questo caso), finché entra il tema che facendosi largo nella bruma, sospeso, quasi una ninna nanna per chitarra, che successivamente si fa psichedelica per sparire nella nebbia da cui ha preso forma.

Per “Not Threads Of Silk” potremmo tirare in ballo la Pj Harvey di Rid Of Me (così come in altri momenti dal mare magnum degli ascolti pregressi a me è salita alla mente Kate Bush), ma la paletta timbrica del trio, le scelte ritmiche e armoniche e la capacità narrativa della cantante sono del tutto personali, per cui si tratta di riferimenti assolutamente vaghi. Del resto dà proprio l’idea di un vagabondare sotto lampioni scassati questa collezione di canzoni, cupe e a volte nude, sempre ossute (la sincope post-punk di “Recluse” schiude una melodia stupefatta che non è altro che la gemella elettrica del carillon acustico della quinta traccia), volutamente povere di mezzi, mai però prive di idee. Chiudono i nove minuti di “Father”, che durante la sua prima metà ribadisce nella sua versione più solare il canovaccio presentato già in precedenza (costrutti melodici immediati e allo stesso tempo mai banali, arrangiamenti dosati a milligrammo, con un imprendibile sapore tra dark e soul, nell’attitudine più che nei risultati, che rende molto peculiare il tutto) e dopo un minuto di limbo oppiaceo si butta in una fuga rock a dire il vero ovviabile, per tornare infine dietro le finestre, a osservare il mondo che accade fuori.

Un bel disco che consiglio senza riserve, perfetto per scaldare il lungo inverno.