THE FLESH, Dweller

Dall’Olanda, e da un paio di costole di Verwoed e Blood Diamond, arrivano i The Flesh con una martellata ghiacciata di una mezz’oretta scarsa, efficace quanto basta per farci dimenticare queste umide temperature. Pare che Dweller sia stato composto dopo una vomitata alcolica che sta ancora impregnando la copertina (lisergica come solo Mattias Frisk sa fare): sia come sia, il suo perfetto mix di black metal e crust vi si attaccherà alla pelle scorticandola e graffiandola in continuazione con urla abrasive e chitarre al vetriolo. Le sei-corde partono lente, escono dalle fogne di un background stoner-southern per lanciarsi subito in un crust/d-beat che vi prenderà a schiaffi: i nomi da tenere presenti qua sono Amebix e ultimi Darkthrone. Fra un riff à la Motörhead, uno stop’n’go e l’uso del tremolo tipicamente norvegese, c’è spazio anche per degli assoli heavy: certo che se pensaste di fischiettare alcune melodie sareste proprio fuori strada, dato che i tocchi heavy sono pochi e sparpagliati, inseriti nei brani solo per aumentare il groove di quella base rock’n’roll sporca e cazzona che si sente da subito, come ad esempio negli intermezzi di “Salax”. Già che ci siete, provate a immaginarvi in mezzo al moshpit durante “Thrones In The Sky”, il miglior connubio dei generi sopracitati presente nel disco.

Purtroppo Dweller da una parte gode dell’essere duro e pesante come un macigno, ma – come detto – non si distingue per la presenza di melodie oppure per picchi di composizione che ti rimangono impressi nella mente. D’altrone, come dice il saggio, se ospiti un Grizzly in casa non ti puoi aspettare che pisci nel gabinetto. Quindi esaminiamo le particolarità che ci hanno convinto a far entrare l’orso: “Dweller (In The Dark)”, forse il brano più sperimentale, connotato da una sezione ritmica ripetitiva e ossessionante, con le urla più disumane di tutto l’album e con growl che escono dalla melma, senza dimenticare le chitarre, dissonanti e caotiche per un noise-hardcore vicino ai Converge di Axe To Fall; spaventosa anche “A Knife To The Conformist”, che a suon di black-thrash tira fuori il momento più “riflessivo” del disco, con riff black metal precisi e compatti che spolverano echi di Watain e Funeral Mist, l’esatto momento in cui i The Flesh toccano la soglia dell’Inferno.