THE EYE OF TIME, Marc Euvrie

Marc Euvrie (The Eye Of Time) sarà in tour in Italia a partire dalla data organizzata da Plunge allo Spazio Ligera (il 24/9, invece, sarà a Vicenza, il 25 a Verona e il 27 a Latina). Nonostante i suoi dischi escano per Denovali, che è una delle nostre etichette preferite da anni (non solo mia, ma di tanti altri recensori su questo sito), non abbiamo mai avuto occasione di parlare della sua miscela di (eccettuato un album acustico) dark ambient, noise, classica e downtempo, realizzata con una varietà di sample e strumenti (chitarra, piano e archi inclusi), che viene spesso paragonata a quella di Third Eye Foundation e che trova il suo apice qualitativo in ANTI, uscito l’anno scorso, un album cupo e tragico, con un fondo di rabbia, che – pur essendo sostanzialmente privo di testi – restituisce l’immagine di un mondo in rovina, in un perenne dopoguerra. Vediamo cosa ci racconta del suo background molto composito.

Abbiamo recensito due tue band: Aussitôt Mort e Sugartown Cabaret. I nostri recensori hanno parlato di hardcore, screamo, post-rock. Nei Novanta la Francia aveva grandi band in quel campo. Che rapporto hai con quegli anni?

Marc Euvrie: Sono arrivato a quei generi musicali all’inizio del 2000, scoprendo gli At The Drive In. È stato questo gruppo a portarmi verso la scena emo/hardcore e i suoi derivati. Agli anni Novanta sono giunto attraverso riferimenti o attraverso le persone che stavano dentro la scena dopo quell’epoca, come i ragazzi di Amanda Woodward, che ho incontrato sempre in quel periodo. Negli anni Novanta ero al liceo o al college, ascoltavo metal, hard rock, grunge, hip hop, gruppi come Deftones, Rage Against The Machine, Red Hot Chilli Peppers, Wu Tang Clan, Beastie Boys, Chemical Brothers, Prodigy, Soundgarden, Pearl Jam, Dj Shadow… All’epoca andavo in skate e credo che lì sia nato il mio legame con la musica da strada.

Nei Novanta in Italia gruppi francesi come Ulan Bator, Bastärd (direi anche Sister Iodine) si erano fatti conoscere. Per mia curiosità, li ascolti? Sono importanti per la scena alternativa o underground francese?

Conosco gli Ulan Bator solo di nome. Mai sentiti gli altri.

Leggo che hai studiato musica classica. Perché allora hai preso una chitarra e hai cominciato a suonare hardcore? Ribellione? Curiosità? Amici che suonavano hardcore?

Francamente non so se sia stata una o l’altra cosa per prima, credo sia tutto mischiato. Amo la musica, nel momento in cui delle particolari emozioni si instaurano io non ho limiti di stile. Ad esempio non faccio differenze tra Debussy e il punk a livello di stravolgimento dei codici della musica. Cambia solo l’epoca. È un continuo affrancarsi dai codici musicali: un compositore che decide di firmare la sua partitura e suona un intervallo diminuito, un Debussy che incatena degli intervalli di quinta, uno Scott Joplin che adatta Chopin per suonarlo nei bar, lo stesso discorso vale per Elvis, Led Zeppelin o anche per i Napalm Death. Di conseguenza non mi sono mai posto il problema di far differenze tra il mio amore per la musica classica o l’hardcore o tutt’altro genere come l’hip hop. Se si fa attenzione, si può sentire la stessa fibra dentro certi pezzi. Lo stesso discorso, anche se lontano di secoli.

E quando e perché ti sei avvicinato alla musica elettronica?

A partire dal momento in cui mi sono messo a fare skate e a guardare dei video di skate, e ad allenarmi coi miei amici per strada. Là ho incontrato dei ragazzi che mi hanno fatto scoprire un sacco di cose, tra le quali l’hip hop, perché almeno all’epoca mia l’ambiente skate era molto hip hop. E quando ho scoperto Third Eye Foundation nel 2001 è scattato qualcosa e mi sono detto che dovevo fare musica elettronica. Mi sono comprato un quattro piste e mi sono creato i primi sample. Registravo un pezzo di classica, poi facevo taglia e incolla della parte che mi piaceva, poi ci attaccavo le piste di chitarra o di piano, che poi mettevo sullo stereo per poterci suonare sopra. Il mio più grande rimorso è quello di non aver conservato nulla di tutto ciò. Successivamente ho acquistato il mio primo computer nel 2004, almeno mi sembra, ed ecco che alcuni pezzi creati in quel momento sono finiti sul triplo lp di Denovali nel 2012. L’album After Us è realizzato essenzialmente col mouse e nient’altro.

Gruppi come i Celeste hanno aperto una strada verso Denovali per altri artisti francesi? Lo chiedo perché anche i Celeste provengono dalla scena screamo francese.

Sono persone che ho frequentato molto, e re-incontrato nel corso degli anni e dei tour. Abbiamo suonato spesso insieme, ma devo ammettere che non mi ritrovo assolutamente in quel genere di musica.  È un tipo di musica per cui non sento nulla.

Con The Eye Of Time tu realizzi il tuo progetto solista. È composito ma spesso è un qualcosa di ambient/drone/soundtrack. Tu provieni da una scena con istanze politiche come quella hardcore. Io ascolto ambient, drone e noise e per me può essere anche questo qualcosa di politico. E per te?

Certo, io considero tutto politico, dunque anche la musica. La politica decide se tu hai il diritto di camminare su questo marciapiede o meno, se tu hai il diritto di fare della musica o di accedere alla cultura. Perciò non interessarsi alla politica vuol dire non interessarsi alla propria vita e a quello che si può fare. Noi non siamo liberi, è un fatto. Andare a un concerto, accedere alla cultura dipende dai mezzi, dall’origine sociale, dalla situazione geografica, tutte cose gestite dai nostri sistemi politici. Io mi sono dovuto battere, da quando sono bambino, per poter continuare a far musica e mantenerla al centro della mia vita. Ne pago il prezzo ancora oggi e devo affrontare molti sacrifici affinché sia così. La mancanza di investimenti in attrezzature, di lavoro, le contraddizioni sociali, l’oppressione sociale, tutte queste cose hanno a che fare con la musica oggi per me, è una battaglia sociale, dunque politica. Fintanto che io non sono redditizio per il capitalismo, non ho alcun diritto di esistere come artista, soprattutto con della musica che non è popolare. Essere artisti liberi è essere dei funamboli, da un lato la follia, dall’altro la miseria economica finché io non sarò riconosciuto o finché non abbandonerò tutto.

“Quando i critici dissentono tra loro, l’artista è d’accordo con sé stesso”, dice il signor Oscar Wilde. Uso questa citazione perché – a essere onesto – non ho trovato critiche o recensioni soddisfacenti del tuo lavoro. Ci puoi dare qualche suggerimento per aiutarci a capire che tipo di suono stai cercando di ottenere per i tuoi lavori solisti?

Il mondo in cui viviamo non è quello in cui dovremmo essere. La vita non è così, ne sono convinto. Allora cerco di trasmettere quest’idea attraverso la musica, uno sguardo triste sulle nostre vite, sulla disperazione riguardo il nostro futuro, il tutto essendo cosciente delle belle cose che esistono ancora, ma che tendono a sparire dentro questa macchina spaventosa di profitto e calcolo. Non ci resta che godere delle ultime cose, dei nostri ultimi amori, della nostra ultima battaglia. Sapere che abbiamo perduto non vuol dire che non sia necessario battersi. Poiché il combattimento è bello, è giusto combattere. Dal caos può uscire qualcosa di magnifico.

Ti piace il paragone con Third Eye Foundation? Ti piacerà di sicuro, perché Matt Elliott è un gran musicista, ma ha senso per te?

Certo che mi va il paragone! Come dicevo poco fa, il mio progetto deve enormemente a Matt Elliott, perché è quello che mi ha invogliato veramente a fare musica elettronica. Ricordo che all’epoca un mio amico aveva messo in macchina Ghost di Third Eye Foundation e io mi ero sentito talmente male che gli avevo detto di fermarsi. Mi stavo realmente facendo un bad trip. Scendendo dall’automobile il mio amico mi dà la cassetta e mi dice “davvero, ascoltalo, sono sicuro che ti piacerà”. Mi sono costretto ad ascoltarlo e in un momento è stata la miglior cosa che avevo potuto fare. Era dark, ombroso, ma bello e melodico, non credevo che una musica potesse essere così triste. Mi sono riconosciuto là dentro. E ho anche un piccolo aneddoto: il tour lo termino con Matt Elliott, perché sono riuscito a farlo suonare nella mia città. È un onore per The Eye Of Time.

Stai per arrivare in Italia. Cosa dobbiamo aspettarci da un tuo show dal vivo? Usi visuals? Tenti di riprodurre le tracce o improvvisi su alcuni estratti dei tuoi lavori?

Dunque, i pezzi saranno più o meno gli stessi, ho fatto qualche cambiamento di struttura o di strumenti per adattarli al live. C’è un brano dal primo album, ad esempio, che è stato enormemente trasformato e che trovo molto più interessante che allora. C’è qualche improvvisazione, ma è rara. Ci saranno anche due nuove cose dal prossimo album che uscirà a fine ottobre, adatterò il set a seconda dei tempi che avrò a disposizione. Dal 2016 ci sono sempre i visuals, sono di Julien Letourneur che mi segue in ogni data, e ha fatto un lavoro superbo. Registra molte cose con la sua telecamera in tournée, i dintorni che visitiamo, i paesaggi, i momenti che viviamo, che lui mescola con delle texture, con degli altri video che danno un’immagine d’insieme somigliante a una texture.