In The Eye Of The Storm – Visioni e suoni di Valerio Tricoli

In principio furono…

I 3/4HadBeenEliminated, quartetto (insieme a Tricoli, Claudio Rocchetti, Stefano Pilia e Tony Arrabito) con base bolognese che nell’arco di una manciata di album usciti nello scorso decennio si fece notare per l’approccio libero da consolidati schemi compositivo-esecutivi e molto preciso nelle intenzioni finali. A sorpresa poi, lo scorso anno, è arrivata la pubblicazione di un nuovo album, Speak To Me (che in realtà pesca in sessions passate) per la Black Truffle del loro estimatore Oren Ambarchi. Tricoli ha sempre affiancato a questo ensemble la sua attività solista, che vede un primo vagito autoprodotto nel 2003 con l’amico Stefano Pilia (Concrete Eloquent).

Fare ordine tra i dischi

Sono tanti… come le collaborazioni che il siciliano ha coltivato nel tempo, da quella con Dean Roberts (il cd-r a nome Popular Productions Redux / Auditions per la neozelandese Formacentric Disk, uscito nel 2006) a quella con Thomas Ankersmit, (Forma II, pubblica Pan nel 2011), passando per Werner Dafeldecker (con l’austriaco nel 2014 si cimenta nel rielaborare, estendendolo, il Williams Mix di John Cage) e Fabio Selvafiorita (Death By Water è del 2011, se ne occupa la milanese Die Schachtel). Altri sodalizi lo vedono con Antoine Chessex (il 12” del 2010 Coi Tormenti, per l’austriaca Dilemma Records) e con Bill Kouligas per una cassetta con una traccia a testa. Da poco è uscito per la Entr’acte The Future Of Discipline, lp col tedesco Hanno Leichtmann. Le sue sono tutte scelte precise – frutto di un bisogno di sentire affinità con artisti anche molto diversi tra loro – che vanno a completare quella che è l’ossatura dei suoi lavori da solista.

Did They, Did I? vede la luce nel 2003 per la Bowindo, etichetta ideata in combutta con Rocchetti, Renato Rinaldi, Alessandro Bosetti, Domenico Sciajno e Giuseppe Ielasi. Consta di una sola articolata composizione, divisa in due parti, ed è un lavoro chirurgico sulle fonti sonore: registrate e poi incollate e processate con grande arguzia e senso della spazialità. Ebbene sì, se lo ascolterete in cuffia vi sembrerà quasi di vivere in surround la lunga, zoppicante passeggiata di un millepiedi che lascia la foresta e si avvicina alla periferia di una città fantasma: crepitii, forti disturbi di frequenza, il suono di un’ambulanza, la voce di una bimba da lontano… Il risultato finale è oggettivamente inquietante.

Del 2006 è invece Metaprogramming From Within The Eye Of The Storm. Pure qui, una traccia unica dove Tricoli si fa aiutare dai soliti Rocchetti e Pilia, coi contributi del trombettista Mathias Forge e di Giuseppe Scopelliti. Frammenti sonori sparpagliati e sinistri, come degli Starfuckers sciolti nell’acido, musica più liquida del solito questa volta, buia e dal non facile ascolto. Dusted Magazine, recensendolo, scrive il giusto: Tricoli is a master of the suspense between actions. Release piuttosto ostica e sintomatica di un approccio sempre irrequieto e poco incline al compromesso.

Nel 2013 si cementa il sodalizio con la Pan, il primo approccio era stato la collaborazione con Ankersmit. È la volta, come già anticipato, di uno split col boss Bill Kouligas. Il brano di Tricoli, “In The Eye Of The Basilisk”, è una sorta di sinfonia, storta e volutamente cinematografica, ma sempre vista dalla sua lente deformante, una visione nella quale si elaborano i soliti inserti e li si unisce formando un tappeto sonoro volutamente cangiante. Le consuete voci in lontananza si rincorrono come perse nel buio, e l’insieme è destabilizzante.

L’anno dopo tocca a Miseri Lares, un doppio lp, seconda uscita per la Pan. La copertina con lettering rosa appoggiato su un fondale fumoso (la foto è di Traianos Pakioufakis) accompagna un contenuto piuttosto potente all’ascolto: il gorgogliare selvaggio de “La Distanza” si dipana in sedici minuti intensi, ma ci sono un altro paio di tracce monstre, la quasi “rumorista” e aliena “In The Eye Of The Cyclone”, un quarto d’ora di tempesta disturbata, e la title-track, esemplare nella sua impenetrabilità, caratteristica che nell’album si percepisce nuda e cruda. L’insieme è al solito ostico e fantasmatico, esempio di vera haunting-music (con stralci di poesie di Dante Alighieri e Guido Ceronetti) che tanto deve alle tecniche di registrazione del passato e agli strumenti impiegati (nastri, synth), particolarmente adatti a rappresentare qualcosa di evanescente e pauroso allo stesso tempo (sembra di ascoltare le voci di una casa infestata…). Chiude la spettrale “In Your Ruins Is My Shelter”, e qui degli immaginari rovi si aggirano solitari nella città spettrale e abbandonata.

Tra parentesi

A billion perspectives on the same instrumental explosion…

Un capitolo a parte è rappresentato dal lavoro uscito nel 2016 con Anthony Pateras, musicista nato in Australia, coinvolto in mille progetti, un vero cane sciolto… In Good Times In The End Times si fanno chiamare Astral Colonels, pescano tra sessioni di registrazione risalenti addirittura al 2008, Tricoli ci lavora dunque per anni. I due assemblano un album rimarchevole e a conti fatti il connubio risulta particolarmente efficace: a tratti sembra di ascoltare il Gruppo Di Nuova Consonanza che s’è sfiancato a forza di registrare da ore e si misura in spossate mini-sinfonie dall’atmosfera rarefatta. Qui il pianismo piuttosto minimalista di Pateras (che si cimenta anche con l’harpsicord, l’organo e il synth) converge deciso nella tetra ragnatela sonoro-ambientale del siciliano, l’album s’infittisce nelle trame fino a diventare più alieno nella seconda parte e a catturare e stordire nella terza. Il cd è uscito in sordina la scorsa primavera per la berlinese Immediata, gestita dallo stesso Pateras. Viene da pensare che il lavoro della coppia risulti talmente ostico all’ascolto da rendere obbligatoria la strada dell’autoproduzione.

Vixit vede invece la luce grazie alla Second Sleep di Matteo Castro (Kam Hassah, nei Lettera 22 con Riccardo Mazza). In quest’album Tricoli sembra raggiungere un equilibrio tutto suo, tanto forte è il livello di tensione gestito con una sicurezza a tratti disarmante. Due soli titoli, la crepitante suite elettroacustica “La Solidità Della Nebbia”, dove si fa ispirare da Luigi Russolo, e la più delicata, sempre a mo’ di sinfonia, “Di Vaga Crepa, Di Gelido Futuro”. Due lati di una stessa medaglia, altrettanti modi di reinterpretare in maniera ancora più convinta ed efficace – per mezzo dell’ormai storico registratore Revox – il suo percorso artistico. Interessante notare come i titoli alludano ad una forma di componimento poetico.

Arriviamo all’ultimo, Clonic Earth, ennesimo ritorno alla berlinese Pan (M.E.S.H., Morphosis, Lee Gamble, Yves Tumor). È un lavoro imponente, un altro doppio vinile, dove le fonti sonore si accavallano senza sosta, come è prassi ormai. La differenza stavolta la fa un amalgama che dà maggiore efficacia all’impenetrabilità delle strutture, mai così complesse. La copertina è a suo modo un piccolo capolavoro di design, vi è raffigurata una scatola contornata da un nastro dorato a suo modo provocatorio: cosa ci sarà mai dentro quella scatola? Difficile spiegarlo, ma bisogna provare a farlo: voci, tante e protagoniste come non mai… catturate chissà dove, perse tra lacerti di ritmiche spezzate e consunte dal tempo, qui si comprende la forte vicinanza stilistica col precedente Vixit. Tricoli afferma di aver tratto ispirazione, tra le altre cose, da Philip K. Dick; la sensazione è che abbia provato a catturare tutta una serie di input relativi alla memoria, usando un approccio fantascientifico piuttosto marcato (“IV. Clonic Earth” è come una pastorale noise), d’altronde si narra di una terra clonata, dunque di un ipotetico nuovo mondo, solo immaginato certo, ma suggestivo… Attenzione, però: Tricoli non ama spiegare troppo, a lui piace evocare e farci perdere nelle sue tempeste perfette scaturite dalle macchine che solitamente ama utilizzare.

Strategie di composizione istantanea – Intervista a Valerio Tricoli

Credo sia stata decisiva la tua esperienza bolognese. Per me quella città ha sempre rappresentato un ideale incrocio (mentale e geografico) che permetteva l’incontro tra anime affini. Viene da pensarlo in riferimento al tuo sodalizio con Stefano Pilia, Claudio Rocchetti, tutti non bolognesi come te… Lì vi siete trovati e avete mosso i primi passi. Cosa aveva di tanto speciale la città di esperimenti come Sant’Andrea Degli Amplificatori, Xing, Zimmerfrei e via elencando?

Valerio Tricoli: Ho vissuto a Bologna per dodici anni e, a parte qualche rara eccezione, non ho conosciuto bolognesi doc. I miei amici erano tutti come me, ragazze e ragazzi trasferitisi in città per l’Università e che poi finiti – o più spesso non finiti – gli studi, restavano comunque a Bologna. La città certamente offriva tantissimi spazi creativi, un negozio di dischi fenomenale, Underground Records, e poteva contare, a livello sia di pubblico che di forza creativa, su una pletora di damsiani in cerca di un… diciamo riscatto psicologico e artistico. Oggi le cose sono forse un po’ diverse, ma neanche troppo: per me Bologna resta il centro nevralgico di una certa cultura in Italia, più viscerale e più filosofica, tutt’ora lontana, o quantomeno non troppo vicina, ai richiami della moda e del design cultur-pop.

Bello sapere che è uscito dopo molto tempo un nuovo album dei 3/4HadBeenEliminated, “Speak To Me”. Mi dicevi che in realtà vengono recuperate delle session di qualche anno fa. A chi è venuta l’idea di pubblicarlo, a voi o ad Oren Ambarchi in persona?

Le due tracce erano rimaste fuori dall’edit finale di Oblivion. Credo che sia stato Oren, che è un fan dei 3/4 della prima ora, a chiederci qualcosa, e Stefano gli ha sottoposto questi due brani.

Mi pare di capire che hai una speciale predilezione per le collaborazioni (basta scorrere nella tua discografia). Ti hanno fatto crescere tanto come musicista?

Sicuramente mi piace confrontarmi con i suoni degli altri e con i loro gusti, e ogni collaborazione è una relazione fatta di momenti positivi e altri più difficili. Lavorare con gli altri, suonare con gli altri, mi fa crescere certamente come persona, e dunque, immagino, anche come musicista. Purtroppo però, da quando vivo a Monaco, la maggior parte di questo tipo di lavori si riduce a un via-vai di file su Dropbox, con rari e brevissimi periodi di vero e proprio lavoro in studio insieme.

Quanto è stato utile e necessario misurarsi con uno strumento ormai storico come il registratore Revox?

Necessario non saprei, di certo non posso dire che abbia mai sentito di dovermi misurare con un pezzo di tecnologia svizzera, se non quando lo porto in giro e ne devo sollevare i suoi 25 chili. Per me il Revox, sia dal vivo che in studio, è un ottimo strumento per avere una buona grana del suono e un’immagine stereo che mi piace: ha solo sei manopole ma è comunque per certi versi imprevedibile. Una volta messo sul tavolo è ergonomico e grazie a Dio molto limitato (certamente lo è se paragonato alle infinite possibilità offerte da un computer), costringendomi, dal vivo, ad elaborare vere strategie di composizione istantanea e pochi trucchetti.

Infatti, segui un preciso processo compositivo?

Questa domanda può avere molte risposte. Un processo c’è di sicuro, ma è certamente impreciso… Raramente mi muovo a partire da una struttura preconcetta, più spesso ad innescare il processo è un suono che ho immaginato, o un suono che ho trovato e che mi dice qualcosa, o un’emozione che ho bisogno di esprimere. Alle volte ad innescarlo è anche della musica che ho ascoltato, o un libro che ho letto… Di norma comunque non so inizialmente dove voglio arrivare, e dunque da principio seguo una sorta di scrittura automatica, poi durante il lavoro non so dove sto andando e dunque torno indietro mille volte e riscrivo tutto seguendo l’istinto e l’emozione dei momenti. Solo dopo alcuni mesi comincio a dare un’architettura a tutti questi organi sfaldati, ma questo solo una volta in cui il senso di quello che sto facendo mi si è per così dire “rivelato”, e allora assecondo quel senso e provo per quanto possibile a renderlo più palese. Credo che sia un po’ come mettere in ordine e dare una forma comprensibile ed espressiva ad immagini e pulsioni interiori inesprimibili e altrimenti inespresse.

Come avete fatto tu e William Dafeldecker a riprocessare tutti quei suoni per il “Williams Mix” di John Cage? La vostra versione extended mi pare un esperimento davvero coraggioso.

Non è che abbiamo processato molto, solo dove era necessario e quando ci mancavano suoni con le giuste caratteristiche di pitch, timbro e dinamica richiesti dalla partitura. Per il resto abbiamo registrato i suoni che servono e li abbiamo montati seguendo fedelmente la partitura. Comunque una discussione più sistematica su W.M.E. la trovi qui: http://www.dafeldecker.net/projects/pdf/WME_Audio%20copy.pdf

Hai dei modelli di riferimento in particolare? Cosa ti dà l’ispirazione per continuare a costruire le tue personali “cattedrali rumorose”? Amo definirle così… Mi viene da pensarlo, soprattutto in riferimento all’ultimo e complesso “Clonic Earth”.

La tua definizione mi piace, ed in effetti il sotto-testo religioso, neanche così ermetico dopotutto, è uno degli elementi principali del disco. Per quanto riguarda i modelli, davvero non saprei essere preciso. Di certo sono influenzato da tantissime esperienze, musicali e non, ma di fatto cerco, più o meno consapevolmente, di non ricalcare nulla. Diciamo pure che cerco una certa originalità: che poi riesca a trovarla, questo è un altro discorso. Comunque sia, per me resta sempre fondamentale che il risultato abbia una dimensione per così dire “psichedelica”, che il suono possa in qualche modo trasportare altrove. 

Con chi ti piacerebbe collaborare in futuro? Cosa ascolti di solito mentre sei a casa per i fatti tuoi?

Nell’ottobre del 2016 ho suonato a Londra insieme a Puce Mary. Ho poi lavorato con Werner Dafeldecker e Pan Daijing ad una cosa che s’intitola “The Speaker”, una composizione sia elettroacustica per la radio che un atto performativo. Per quanto riguarda gli ascolti, invece: ho ascoltato i lavori di Caterina Barbieri, che mi piacciono molto.

Mi viene da pensare che il tuo sia un lavoro piuttosto materico, in alcune parti quasi “violento” all’ascolto. Alla fine la principale percezione è che però non ci sia nulla di troppo istintivo, ma di studiato invece, anche di “teutonico” quasi. Fa specie pensare alle tue origini mediterranee, ma so di contraddirmi subito se penso alla dominazione germanica avvenuta secoli fa in Sicilia, e alle numerose cattedrali normanne lì presenti. Insomma tutto questo preambolo per chiederti se ti trovi un po’ a casa tua anche in Germania…

La risposta è che in Germania vive mio figlio, e dunque ci vivo anch’io. Quindi sì, mi sento a casa perché la mia casa sono le persone che amo, e non i luoghi che abito. Per il resto, per dirla con Paul Valéry, mi trovo più a mio agio con i vizi dell’ozio che con i mostri generati dalla grande virtù.

Discografia

Valerio Tricoli

Did They, Did I? (Bowindo, 2003)

Metaprogramming From Within The Eye Of The Storm (Bowindo, 2006)

Miseri Lares (Pan, 2014)

Vixit (Second Sleep, 2016)

Clonic Earth (Pan, 2016) 

Astral Colonels (Valerio Tricoli, Anthony Pateras)

Good Times In The End Times (Immediata, 2016)

Collaborazioni

Valerio Tricoli & Stefano Pilia – Concrete Eloquent (Autoproduzione, 2003)

Dean Roberts / Valerio Tricoli – Popular Productions Redux / Auditions (Formacentric Disk, 2006)

Antoine Chessex / Valerio Tricoli – Coi Tormenti (Dilemma Records, 2010)

Valerio Tricoli / Thomas Ankersmit – Forma II (Pan, 2011)

Fabio Selvafiorita / Valerio Tricoli – Death By Water (Die Schachtel, 2011)

Bill Kouligas / Valerio Tricoli – Split (Pan, 2013)

Werner Dafeldecker / Valerio Tricoli – Williams Mix Extended (Quakebasket, 2014)

Hanno Leichtmann / Valerio Tricoli – The Future Of Discipline (Entr’acte, 2016)

Per la cronaca: la stesura dell’articolo, intervista compresa, risale alla fine del 2016. A distanza di un anno circa ho ritenuto ancora attuale pubblicare il tutto.