TERRY BLUE, Lakewoods
Inizialmente ero dubbioso nell’ascoltare Lakewoods, ultimo disco ufficiale del ticinese Terry Blue, prima della sua presentazione dal vivo (della quale trovate su queste pagine una cronaca) ma ho propeso per un approccio distinto: disco in ascolto, live in visione, affinità e divergenze.
Terry Blue è Leo Pusterla, compositore e autore attivo con questo nom de plume fin dal 2013, ma al momento non potrebbe esserlo senza Eleonora Gioveni, arrangiatrice, splendida seconda voce, spalla e specchio.
Lakewoods, lo si può ben intuire fin dalla copertina, è un disco di folk pop contaminato, in più sensi. In primis perché prende il via dal cantautorato agreste statunitense in auge negli ultimi 30 anni, ma vestendolo e vivendolo come se a comporre ci fosse un produttore di stanza a Morr Music o a Kitty-Yo. Un Mantler che parta da Will Oldham, insomma, forse un Bon Iver. In secondo luogo perché – partendo dal Ticino ma avendo viaggiato per l’Europa negli ultimi anni – è riuscito a raccogliere correnti più o meno contemporanee con le quali sciacquare quello che sembra essere un prodotto importante nella sua carriera, rendendolo lucido e limpido, producendolo, registrandolo e mixandolo negli studi di Safe Port Production. Quest’ultima è la label che dirige e che ha visto in questi due anni uscite fresche come Yuna Hawks, Currenti Calamo, Frank Atene, progetti ticinesi (cantone che, ricordiamolo, raggiunge la superficie di circa un decimo della Lombardia) che stanno in qualche modo incidendo su programmazioni radio, media, palchi con un buon riscontro.
In secondo luogo perché riescono a farlo con una cura ed un calore preciso, toccante e personale, guidando la bella voce di Leo ed Eleonora fra arrangiamenti soavi ed immaginifici. In più Lakewoods ha i pezzi: la doppietta iniziale con la scoppiettante “Outfalls” (non lontana da certi Tarwater con le camicie a scacchi) e “Gone Glacier”, sottile e leggera. Il lavoro sui suoni è certosino e colpisce all’ipotalamo, trascinandoci con sé: come spesso succede con questi lavori di sintesi tra natura e tecnologia, l’impressione è di una proposta lucida, levigata, a tratti distante. In questo caso, però, la parete non sembra essere impermeabile, bensì flessuosa e traspirante, con un passaggio di sostanze e sensazioni. In “Hauxes” si guarda a Bergen alzando solo un pochino il ritmo, “Cegueira” ci porta via la vista sostituendola con immagini raccontate, mentre “Fragile Friend” è un cristo di singolo, elegantemente emozionante, carnale e vissuto ma con misura, dove la voce tradisce questa sua realtà (ancora) bucando la parete. “Glitch” vaporizza gli umori e l’aura di Valerie Trebeljahr si collega in cerchi concentrici. Le chitarre in “Lakewoods”, la voce strascicata di “Holderness”, gli arrangiamenti ed i tocchi personali. Lakewoods è un territorio più che un disco completo, una mappa visuale e scritta di un mondo che è quello dei Terry Blue. Un lavoro molto personale nonostante i riferimenti espliciti, che saprà di certo evolvere e cambiare in futuro, così come mutano legni e tecnologie. Dosarli è materia d’artista illuminato e quando il mix funziona ci si bea, come spesso capita nella terra dei laghi.