SYLVIE COURVOISIER / MARK FELDMAN, Time Gone Out

SYLVIE COURVOISIER / MARK FELDMAN, Time Gone Out

Con alle spalle una partnership oramai più che ventennale, Sylvie Courvoisier e Mark Feldman con questo Time Gone Out continuano la loro opera di fine sutura, in altre parole il dialogo tra improvvisazione e composizione, tradizione e modernità. Nostalgia di un altro mondo (“Homesick For Another World”) e sono scatti in avanti, movenze che spiano la musica accademica novecentesca e ne riprendono perfettamente i serrati e flessuosi passi di danza; una musica libera, lievissima eppure rigorosa e inarrestabile. La solida formazione classica di entrambi permette loro di spaziare senza alcun timore o impaccio ovunque, tra asperità, infiniti languori, spigoli, Béla Bartók, Debussy, le ombre della musica atonale. Mette quasi soggezione il curriculum dei due, protagonisti anche di lavori per la Tzadik di John Zorn come per la Ecm di Manfred Eicher (Abaton del 2003, in trio con Friedlander). I temi non sono mai cantabili eppure il discorso melodico è sempre fluido, sia quando riflette mille sfuggenti ombre colemaniane (“Éclats For Ornette”), sia quando si fa più astratto e sfruculia lungo i bordi (“Limits Of The Useful”, con il pianoforte alla deriva e una meraviglia trattenuta e sobria che ci invita a perderci seguendo il canto delle sirene). Grande controllo, libertà creativa totale, padronanza assoluta di un vocabolario vasto e mutevole. Zone d’ombra dove il dettato inquieto del duo cerca una strada nella notte (“Blindspot”), ruggini corrusche, movimenti sismici, esplorazioni dentro al pianoforte (“Cryptoporticus”, tra Cage e un folk di Atlantide).

Reso possibile dal supporto del programma della Chamber Music America’s 2016 New Jazz Works, Time Gone Out sta in un posto metaforico e reale, tra Shostakovich, Schnittke e l’urgenza del free storico; composizioni allusive, elusive, capaci di evadere sempre dalle gabbie del già ascoltato per offrire campo aperto all’inaudito, all’insolito, all’inatteso. Avanguardia che non si ripete mai, arte del dialogo e dell’istante, a un passo da spartiti da conservatorio illuminato (“Not A Song, Other Songs”), per poi chiudere nel perfetto racconto delle nebbie di “Blue Pearl”, tra cluster di piano e bordate à la Stockhausen, scale che salgono, salgono, inseguimenti, frammenti, rapimenti, stordimenti, per terminare poi in un silenzio enigmatico. Fulcro del disco è però la title-track, diciannove minuti profondi e magmatici come una sinfonia, epitome perfetta dell’arte di due musicisti in perenne, insonne esplorazione, tra sfingi, sibille, meraviglia e minaccia. Time Gone Out: la fine continua ad ammiccare lì, a un passo, ma il tempo, per ora, non è ancora esaurito.