SYLVAINE, Nova

Ci sono album che arrivano troppo tardi: Nova è uno di questi. È senza dubbio un’opera matura, su cui Sylvaine – al secolo Kathrine Shepard – ha investito parecchio. La sua stesura è stata condizionata dalla pandemia, che ha costretto la polistrumentista norvegese (nata negli Stati Uniti, ma trapiantata in Francia) a un lungo periodo di isolamento, ma anche dalla necessità di elaborare traumi personali. Tutto questo ha lasciato il segno sulle composizioni, che non a caso ruotano attorno al concetto di rinascita e al bisogno di rinnovamento.

Parliamo di un disco squisitamente blackgaze: sì, il figlio bastardo che il black metal non ha mai voluto riconoscere. Le influenze dei capostipiti della corrente – Alcest, Amesoeurs – sono piuttosto evidenti, tanto che stupisce la mancata partecipazione di Neige, sempre pronto a collaborare con Sylvaine. Del resto, i temi affrontati in Nova sono molto più intimi rispetto ai precedenti capitoli del progetto, e questo potrebbe aver indotto Kathrine ad emanciparsi dal suo idolo.

È proprio la voce da soprano della Shepard a ritagliarsi ampio spazio: il brano di apertura si regge interamente su un intreccio di cori eterei che vanno a formare una sorta di preghiera o invocazione. La scelta di utilizzare un linguaggio difficile da decifrare – se non del tutto inventato – dona al pezzo un’impronta fiabesca e ne enfatizza la natura spirituale. Le successive sei tracce (tra cui la bonus “Disillusion”, ben inquadrata nel contesto generale) offrono all’ascoltatore una panoramica delle sonorità che gli appassionati del genere hanno imparato a conoscere fin dai primi vagiti degli Alcest.

I toni dell’album sono per lo più contemplativi, ma gli arrangiamenti sono turbati da fuggevoli episodi di matrice black-metal, in cui, oltre al buon vecchio cantato in screaming, possiamo meglio apprezzare il lavoro alla batteria del session-drummer Dorian Mansiaux. Questi passaggi rabbiosi arricchiscono il bagaglio di emozioni del disco, ma evocano soprattutto le difficoltà affrontate di recente dalla Shepard. Accanto alle cavalcate post-black metal di “Mono No Aware” e “Fortapt”, trovano posto le più accattivanti “I Close My Eyes So I Can See” e “Everything Must Come To An End”, caratterizzate da elementi dream-pop e da un mood più rilassato (facile cogliere analogie con “Recueillement” o “Video Girl” degli Amesoeurs).

L’unico vero neo di Nova è proprio la sua assoluta fedeltà ai canoni del movimento. Fosse uscito durante la primavera del blackgaze, accanto a Souvenirs D’Un Autre Monde e Ruines Humaines, si sarebbe giocato il posto tra i dischi di riferimento del genere. Ascoltandolo oggi, in molti potrebbero invece avvertire il sapore agrodolce dell’amarcord.