SUSAN ALCORN QUINTET, Pedernal

Nata a Cleveland, Ohio, nel 1953, Susan Alcorn, esploratrice delle possibilità della pedal steel, con questa nuova formazione a cinque ha regalato al 2020 appena finito una delle perle più luminose. Cinque pezzi con Mary Halvorson, il contrabbassista Michael Formanek, il violinista Mark Feldman e il batterista Ryan Sawyer, che ha lavorato con Thurston Moore, Tv On The Radio e Zeena Parkins. Se siamo soliti accostare questo strumento alla musica di Nashville o delle Hawaii (Heather Leigh esclusa, ma è stata proprio Alcorn a regalarle la sua prima pedal steel guitar, come potete leggere qui), con Pedernal, registrato in un luogo appartato nel New Mexico (qualche passaggio potrebbe funzionare in effetti come colonna sonora per “Breaking Bad”), ci ritroviamo in tutti altri luoghi: un’America vaga, allucinata, un miraggio osservato attraverso lenti deformanti; basti ascoltare la title-track, che apre il programma: un tema  morriconiano della pedal steel che porta vento, deserti, stupori e classicismi da pellicola, un incedere pigro e ordinato, lirico, un folkore immaginario, come un Ribot alle prese con il western e poi dopo due minuti il benvenuto impazzimento, tra scrittura fitta e improvvisazione prima rarefatta poi nervosa, a creare un gioiello di cinque minuti, un ibrido inaudito tra Americana e avant perfettamente a fuoco.

Tutte e cinque le tracce mantengono alta l’ispirazione e la visione, tra fantasmi e sguardi lievi e affilatissimi; inconfondibile il tocco di Mary Halvorson all’elettrica, protagonista del buonissimo Artlessly Falling, disco che ha raccolto diversi meritati consensi. A parere di chi scrive, Pedernal è perfino superiore, capace di tentare strade poco battute e di toccare nel profondo con un suono che allude, elude, invade, e nemmeno per un secondo indulge nella calligrafia. Come definire la veglia notturna di “Circular Ruins”? Un clima di attesa come nel deserto dei Tartari, tra ombre, minacce lontane, promesse che trovano il loro senso proprio nell’essere disattese; un pezzo che apparentemente non va da nessuna parte e proprio per questo non fa prigionieri. Più nervoso e tipicamente downtown jazz l’incipit di “R.U.R”, con uno swing dispari sul quale fioriscono le lame imbevute di tequila di Alcorn e che dopo un minuto deraglia altrove, tra ansie di segnali morse, sincopi e agguati. Come partire per un tour guidato ad osservare i cactus giganti e dopo un battito di ciglia ritrovarsi all’improvviso strafatti di peyote sotto un cielo che annuncia tempesta. L’aspetto più interessante di queste tracce è la loro imprevedibilità, la loro forma sfuggente, la capacità di stare in un qualche posto indicibile tra gli harmolodics di Ornette Coleman (una ispirazione dichiarata per la leader), l’idea del deep listening di Pauline Oliveros ed un’Americana intima e sottile, metafisica come certi frangenti cinematografici dei fratelli Coen. Tuffatevi ad occhi chiusi nei tredici minuti di A Night in Gdansk, tra sussulti novecenteschi (Messiaen è un altro riferimento importante) che affogano poi in un gorgo dal quale risalgono sparsi lampi di melodia, come inni sul bordo di un precipizio. Pedernal è inusuale e personalissimo non solo per la sua peculiare natura timbrica: sono la scrittura della Alcorn e la maestria degli altri interpreti a farlo schizzare molto in alto nella classifica dell’anno appena passato. Chiude “Northeast Rising Sun”, con un tema cantabile, solare, nato dalla dilatazione di un ritornello usato nella tradizione devozionale Sufi. Un disco magico.