Sunn O))) – Finis Mundi: esoterismo, ritualità e teatro della crudeltà nel più grande labirinto del mondo

Venerdì 9 settembre, Fontanellato (PR), Labirinto della Masone. Grazie a eroenegativo per le foto.

Finis Mundi, la fine del mondo. È difficile parlare di un evento che, più che un concerto, è stata un’esperienza unica ed estremamente personale, trent’anni dopo la morte di Jorge Luis Borges, celebre scrittore argentino che nei suoi lavori ha saputo unire metafisica e fantascienza. La sua ultima opera, edita da Franco Maria Ricci, cioè l’ideatore della bellissima location del “Labirinto della Masone”, fu proprio il celebre e introvabile volume “Finimondi”, illustrato con i dipinti di John Martin.

La sensazione fin dal mio arrivo a Fontanellato è stata quella che gli ideatori di questo evento abbiano voluto pianificare in tutto e per tutto la celebrazione di un antico rito. Per poter comprendere la portata di ciò a cui abbiamo assistito è dunque necessario analizzare alcuni degli elementi-chiave di questa performance.

Il Labirinto

Il “Labirinto della Masone” è il più grande labirinto del mondo. La sua forma stellata a sette punte è già di per sé un richiamo al culto del sole e riecheggia le “sette leggi cosmiche di Ermete Trismegisto”, il che ne fa un luogo di ispirazione fortemente esoterica. La scelta della location è stata quindi determinante per la resa dello spettacolo. Il labirinto, infatti, è un simbolo di vita e di morte, una delle immagini più rappresentative della condizione umana, che indica una sorta di carcerazione emotiva ed esistenziale. Una limitazione della percezione e della coscienza. È attraverso quel labirinto e quelle sette leggi che l’uomo, in quanto tale, deve abbandonare la sua condizione esistenziale statica, abbattere i muri che lo tengono imprigionato alla sua vita terrena ed elevarsi ad un nuovo livello di coscienza, metafisico, per riuscire a risplendere della luce del Dio.

Gli atti

Come dicevo, non parlerei di concerto ma, piuttosto, di performance, in particolare di performance teatrale che prende come riferimento i canoni del Teatro Panico così come ideato da Arrabal, Jodorowski e Roland (un movimento che manifestava la sua vena provocatoria in caotiche e surreali “azioni” artistiche) e quelli del Teatro della Crudeltà, così come ipotizzato da Artaud che, a tal proposito, scriveva: “Il teatro è prima di tutto rituale e magico”, “non è una rappresentazione. È la vita stessa in ciò che ha di irrapresentabile”.
Lo spettacolo, dunque, diventa scomponibile in più atti che ci preparano ad assistere al rituale vero e proprio.

Atto I – Taiko performance by Fudentaiko – La manifestazione della vita

La serata si apre con un’esibizione di Taiko, tamburi giapponesi che, col loro suono risoluto, intenso e avvolgente, riportano subito la mente al pulsare del cuore di nostra madre, la prima cosa che sentiamo quando veniamo al mondo. Quest’immagine è resa anche visivamente, in quanto gli esecutori sono vestiti di nero, disposti dietro a lunghi pannelli di luce rossa. Una rappresentazione della vita, dunque, che lascia lentamente il posto al passaggio successivo.

Atto II – Finis Mundi – video installation by N!03 [ennezerotre] – La manifestazione della morte

L’installazione del collettivo milanese ci offre un’immagine vivida dell’Apocalisse, della fine del mondo, della morte. Su lunghi drappi bianchi vengono proiettate immagini che riprendono l’Apocalisse di San Giovanni. Davanti a noi si erge una porta infuocata. Non siamo mai stati così vicini all’Inferno. Questo momento dello spettacolo può essere considerato come fondamentale, in quanto è solo con la morte che il nostro corpo diventa degno di compiere quel rito di passaggio rappresentato dall’ingresso nel labirinto.

Atto III – Ogni speranza viene abbandonata nel labirinto

L’ingresso nel labirinto è stato pensato per amplificare le percezioni dello spettatore. Se, infatti, in un primo momento il dover camminare su di un terreno fangoso, al buio, raramente illuminato da delle piccole lanterne bianche, poteva lasciare intontiti o disturbati, è stato proprio il dover individuare il percorso, perdersi e ritrovarsi, il dover necessariamente appoggiarsi a chi ci stava davanti, facendo da sostegno a chi ci stava dietro, ad amplificare le nostre sensazioni, a creare una coscienza collettiva. Nel mentre maligne presenze mascherate hanno tentato di confonderci, di spaventarci con risate mefistofeliche e, alla fine, una luce bianca ci ha resi ciechi, solo per permetterci di poter vedere di nuovo. Dinnanzi a noi, una piramide illuminata di rosso. Tutto attorno, pareti poco illuminate e fumo avvolgente.
Ciò che è da considerare è che non siamo usciti dal labirinto: siamo arrivati nel suo centro, dopo aver compiuto una trasformazione. Non ci siamo salvati, ci siamo solo trasfigurati.
Siamo quindi pronti per l’arrivo del nostro Sacerdote.

Atto IV – L’arrivo del sacerdote

Con il “Teatro della crudeltà” Artaud cercava di sovvertire lo spettacolo – inteso come risultato estetico o comunicativo – in una verità totale, contrapponendo agli attori gli agiti, non più interpreti di personaggi, ma ministri di forze, sciamani, protagonisti di un teatro che fosse in tutto e per tutto azione.

Sono le 23 quando il silenzio piomba e la piramide si illumina di bianco. Il primo a far capolino sulla scena è Attila Csihar, colui che sarà il nostro maestro cerimoniale per due ore e venti. L’immagine rievocata dalla sua presenza sulla piramide, dal suo monologo cupo e tetro che sembra invitarci a guardare le stelle, ad assorbirne l’energia e la luce, è quella del rituale azteco del Sacrificio. Con questo termine nell’antica civiltà mesoamericana non si faceva riferimento solo al sacrificio umano, ma anche quello dello stesso Dio. Secondo i sacerdoti aztechi, infatti, gli dei si immolarono per consentire all’umanità di sopravvivere. Quello che credevano è che, in realtà, la vita stessa nascesse dal sacrificio, un grande sacrificio sempre in atto nell’universo, e dunque che quello umano diventasse l’offerta più grande con la quale gli Aztechi avrebbero potuto ripagare il proprio debito nei confronti degli dei.

Il silenzio attorno a noi è totale e irreale. L’antico canto di Attila, della durata di oltre dieci minuti, apre un varco che porta lentamente O’Malley/Anderson a prendere posizione sul palco, accompagnati da Tos Nieuwenhuizen (moog) e Steve Moore (tastiera/trombone). Incappucciati e silenziosi, sembrano voler ricordare i Cavalieri dell’Apocalisse. Tutte le religioni e tutti i riti del mondo paiono mischiarsi sul palco.

Atto V – Il rituale

La potenza degli amplificatori inizia a riempire l’aria. La luce si fa più forte e fitte coltri di nebbia circondano i nostri corpi. Da questo momento in poi, non ci sarà più silenzio. Le vibrazioni e i volumi aumentano, Attila raggiunge gli altri sul palco e tutto ciò che succede da ora è indecifrabile, indescrivibile. Quello in cui ci ritroviamo avvolti è una sorta di ipnosi, una catarsi (nell’accezione greca di “purificazione)” indotta da frequenze, drone, feedback, riverberi. A volte ho l’impressione che il mio corpo si spacchi. Chi era preoccupato per la resa in uno spazio aperto, deve ricredersi. Il consueto muro frontale di amplificatori dei Sunn è infatti completato da una serie di dispositivi laterali che accrescono la sensazione di riverbero.

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Attila incita il pubblico a prendere parte al cerimoniale, alza le braccia, i suoi compagni lo seguono e gran parte dei presenti imita le sue movenze, sollevando le loro, di braccia, in segno di rispetto. Passo gran parte dell’esibizione a occhi chiusi. Non mi interessa più vedere cosa succede sul palco, non mi interessano le luci, i fumi, i colori. Sono totalmente rapita da quel suono che intrappola il mio corpo in movenze che non mi appartengono. Sento il petto comprimersi e poi aprirsi. Come se una mano invisibile sollevasse la mia carne e mi portasse a compiere un’oscura danza.

Sul palco si alternano momenti claustrofobici a momenti lirici, come il meraviglioso pezzo di sola voce, moog e tromba che richiama nella mia testa immagini che ho visto solo nei dipinti più crudeli di Bosch.

Siamo quasi al culmine, tutti i protagonisti sono sul palco, il pubblico è immobile, completamente assorbito da questo lunghissimo delirio finale che ci sgretola le ossa e il cervello, tutto ormai è solo un lento e incessante ronzio, tutto ormai intorno è rassegnazione e inferno. Non esistono più un labirinto, delle persone, una piramide, al loro posto un’onda che si comprime su se stessa e tutto assorbe, capovolge e modifica.

L’atto finale diviene dunque il sacrificio estremo, quello di Attila che si muove, sale, scende, si deturpa, respira, ci ingloba, muore. E morendo si fa Dio.

La fine del mondo è compiuta, andate in pace.