Steve Von Till: il mestiere di abbandonarsi alla Musa

Steve Von Till - foto di Bobby Cochran
Steve Von Till – foto di Bobby Cochran

Steve Von Till esce con un album solista che si discosta dalla sua linea più squisitamente chitarristica. No Wilderness Deep Enough incrocia un sound minimalista, maturo, con una narrazione lirica intima, quasi da crooner, per proporre una scrittura intensa, tesa verso l’espressività struggente ma costantemente fluida nel suo scorrere.
A caricare ulteriormente di significato questo disco, c’è Harvestman, la prima raccolta di poesie di Von Till; 23 scritti inediti (e testi selezionati di canzoni dell’artista statunitense) che disegnano una parabola compositiva rimasta nascosta in piena vista per lunghissimo tempo.

Incontro Steve su Skype per saperne di più riguardo il suo approccio alla musica, alla poesia e ai tempi che ci stanno investendo.

Trovo che No Wilderness Deep Enough porti la poetica del tuo progetto solista a un livello diverso. La riflessività e l’intimità che ho sentito nei tuoi dischi precedenti sono come ovvio ancora estremamente presenti, ma questa volta il quadro musicale è abbastanza diverso.

Steve Von Till: La differenza fondamentale è che non c’è chitarra nella stesura di questo disco, mentre la maggior parte dei miei precedenti album solisti erano essenzialmente chitarristici; forse qualche pezzo è stato scritto al piano e uno è stato scritto su un organo, ma per la maggior parte erano canzoni composte sulla chitarra, con la struttura liberamente basata sul folklore americano. Non che io stia cercando consapevolmente di seguire uno stile, ma è solo il modo in cui la chitarra ha incorniciato le canzoni per me. Questo disco non è nato intenzionalmente. L’intero processo, l’intera creazione di questo disco è stata accidentale, non intenzionale: è una lezione su come arrendersi alla Musa in un momento qualsiasi, seguirla ovunque mi avrebbe portato, ed è una lezione che ho imparato lungo tutto il mio percorso musicale. Più tempo spendi ad esercitarti in ciò che impari, più diventi bravo a metterlo in pratica; quindi sto diventando più bravo ad arrendermi.

Il fatto che questo album sia semplicemente “arrivato a te involontariamente” è un concetto molto interessante. Cosa vuoi dire con questo? Hai vissuto un momento di illuminazione o qualcosa ti ha colpito in particolare? Una situazione, un momento…

Non ho mai preso piena consapevolezza del fatto che stessi scrivendo un disco fino a quando la musica non è stata completata. E anche a quel punto, non ero effettivamente convinto che stessi scrivendo un album da solista su cui avrei cantato, è una storia un po’ complicata.

Nella primavera del 2018 io e mia moglie stavamo visitando i suoi genitori che vivono nel nord della Germania, a circa mezz’ora da Brema. La sua famiglia ha vissuto nello stesso posto, in quell’esatto appezzamento di terreno, per oltre 500 anni. Non solo la fattoria e il terreno che la circonda, ma anche la stessa casa, per così tanto tempo; mi rendo conto che è un lunghissimo periodo anche per gli standard del Vecchio Mondo. Ogni volta che sono lì, mi sento parte del tutto, perché il mio interesse per il folklore e la storia antica mi spinge a farlo e questa zona in particolare è molto significativa: ha origini che risalgono addirittura all’era megalitica e questo significa che le persone hanno coltivato questa terra per migliaia di anni. In tal senso, è molto diversa dalla natura selvaggia in cui vivo qui in Idaho, in cui noi umani siamo arrivati solo da pochissimo tempo, nel grande schema delle cose: il cambiamento del paesaggio è ancora solo agli inizi qui, il selvaggio è ancora molto selvaggio. Quindi, ogni volta che sono in quella fattoria in Germania, sento che c’è un certo peso nella terra e soprattutto nella sua casa.

Li chiamo “fantasmi familiari”, ma non sono ovviamente da intendersi come i fantasmi nei film o in TV (ride, ndr). Sono come una presenza, l’energia di una famiglia che è stata in un posto per così tanto tempo e le conferisce spessore, importanza. In un certo senso, ne aumenta il peso. Io stesso discendo da persone che hanno continuato a muoversi e ad attraversare il paese fino a raggiungere l’Oceano Pacifico e, quando ci rifletto, sento anch’io un peso, un’importanza della mia eredità.

Comunque, questa volta in particolare stavo accusando davvero molto il jet lag; di solito me la cavo abbastanza bene, ma a questo giro non riuscivo a chiudere occhio. Per di più, sai com’è quando sei a una riunione di famiglia, mangi molto, bevi molto e così via, quindi mi sentivo davvero stanco e, tra il sonno che non arrivava e gli eccessi a tavola, ero in una sorta di stato allucinatorio nel cuore della notte. Alla fine, mi sono alzato dal letto, perché mi sono reso conto che non stavo giungendo a nulla di buono continuando ad arrovellarmi nei miei pensieri.

Avevo un piccolo set elettronico nell’angolo della mia camera da letto, con solo un laptop, una tastiera e un paio di cuffie e così, senza pormi obiettivi, ho iniziato a giocherellare con i suoni. Non stavo facendo nulla che avesse uno scopo preciso, ma avevo trovato un suono di pianoforte verticale molto bello, molto realistico, dinamico e reattivo che mi ha ispirato a mettere insieme alcuni semplici accordi. Non sono un pianista, nemmeno con uno sforzo di immaginazione, quindi quello che stavo componendo era davvero molto semplice, accordi di due e tre note che portavano a un accordo successivo; una cosa tira l’altra, insomma, senza pretese, stavo solo ammazzando il tempo. Alcune persone giocano ai videogiochi, o leggono libri, o qualsiasi altra cosa, io faccio suoni con le mie mani, qualunque cosa ci sia: è la mia cosa.

E così ho registrato quegli accordi che scaturivano spontaneamente, senza un obiettivo specifico in mente e non erano cose che avrei fatto se fossi stato completamente in me; probabilmente, in un’altra condizione, avrei sminuito quanto avevo composto, mi sarei detto che non era interessante, noioso; invece, ho deciso di tenere tutto e l’intera settimana è continuata così. Non ho mai dormito, così ho iniziato ad aggiungere corde di mellotron e un po’ di corno francese, trovando sempre più progressioni e continuando a registrarle. Di nuovo, non pensavo di fare alcunché di preciso: stavo solo seguendo la strada che conduceva alla tana del coniglio.

Quando sono tornato a casa da questo viaggio e ho trovato del tempo libero, sono andato nel mio studio privato e man mano che aprivo i file, rimanevo incuriosito da ciò che avevo registrato; ho iniziato ad aggiungere alcuni sintetizzatori analogici (Moog, Korg e alcune altre macchine che ho nel mio studio) e ad elaborare alcune delle sorgenti digitali attraverso la mia attrezzatura analogica, con delay, riverberi, filtri e phaser, finché il tutto non ha iniziato a prendere forma. Sembrava molto simile a un disco ambient, ma con una virata verso elementi neoclassici. Anche se non sono un compositore classico in alcun modo, ascolto molta di quella musica e tendo ad apprezzarne gli elementi più essenziali. Tuttavia, a questo punto della composizione, non sapevo ancora bene cosa fosse questa musica che stavo scrivendo, sapevo solo che non rientrava nei parametri che mi do di solito. Non sembrava un disco solista, perché non era scritto alla chitarra, ma allo stesso tempo, non avevo voglia di prenderne una, attaccarci un fuzz, mettere una linea psichedelica su quanto avevo composto e chiamare il disco “Harvestman” (come la raccolta di poesie, ndr), non sarebbe stata l’idea giusta, ciononostante non sapevo cosa fosse. Nei mesi a seguire si è semplicemente evoluto, fino ad arrivare a com’è ora. Le canzoni sono venute alla luce senza voce, fino al momento in cui ho chiamato il mio amico Randall, che ha registrato il mio ultimo disco solista, e gli ho detto: “Ehi, amico, non ho idea di cosa io abbia per le mani, ma vorrei prenotare comunque un po’ di tempo in studio e sostituire il piano digitale con un vero pianoforte. Mi piacerebbe un violoncello vero, che aggiungesse solo un po’ di vita col suono dell’arco che accarezza le corde, per sostituire il mellotron”. Amo il suono del mellotron, amo i Beatles, i King Crimson e tutto il resto, ma mi mancava qualcosa di materico nel tessuto sonoro, quindi ho pensato che, forse, degli strumenti veri avrebbero portato un po’ di vita al suono del disco. E ovviamente volevo sostituire il mio corno francese digitale con un vero corno francese; così, Randall ha preso i miei file e ha ascoltato il tutto per un paio di giorni. Io gli ho detto che probabilmente avrei dovuto inventare un nuovo nome per un nuovo progetto perché stavo facendo musica ambient. È tornato un paio di giorni dopo e mi ha detto: “Sono d’accordo con te, dovremmo andare in studio e rifare il piano, il violoncello e il corno francese, ma non dovresti nemmeno aver paura di cantarci sopra e renderlo il tuo prossimo album da solista”. Questo mi ha fermato di colpo, perché non ero d’accordo e gli ho detto istintivamente di no, che non volevo mettere la mia voce aspra su questa bellissima musica, mi sembrava un’idea sbagliata, così su due piedi, ma rispetto moltissimo la sua opinione, quindi, nonostante la riluttanza iniziale, questa idea ha preso a farsi strada nella mia mente. A questo punto era l’inverno tra 2018 e 2019 e durante il passaggio al nuovo anno ero in pausa dal lavoro, mia moglie era tornata in Germania, in visita ai suoi genitori e quindi ero qui nella nostra casa, sepolta nella neve, solo io e i nostri cani. Non avevo voglia di uscire per andare nel mio studio, anche perché i cani sarebbero rimasti soli tutto il giorno, quindi, per verificare se Randall avesse ragione, ho recuperato un microfono, l’ho portato nel nostro soggiorno e ogni mattina, mentre prendevo la mia tazza di caffè e accendevo il fuoco nella stufa a legna, col mio taccuino alla mano, mi mettevo ad improvvisare come avrei potuto cantare su questa musica, gran parte della quale era abbastanza astratta. Iniziavo così a notare una sorta di semplice impulso da seguire, a volte un pezzo di piano, o una linea di corno, e così, alla fine della settimana, avevo tutte le parole, avevo tutte le melodie, avevo tutte le parti vocali, ho dovuto chiamare Randall, dirgli che aveva assolutamente ragione e che avremmo dovuto prenotare il tempo in studio. Abbiamo lavorato in studio per sei mesi, dopo l’inizio di giugno 2019 e in pochi giorni abbiamo rifatto la voce e ho sostituito il piano. Avevamo lavorato con alcuni amici a New York per fare il violoncello e il corno francese, abbiamo mixato tutto ed è quello che è ora: bellissimo.

Steve Von Till - James Rexroad
Steve Von Till – foto di James Rexroad

Quindi tutto è accaduto in modo molto naturale, come una reazione a catena.

Sì, esatto. Fondamentalmente in ogni fase del processo si è reso necessario che io uscissi dai miei soliti modi di lavorare e non permettessi all’insicurezza o all’autocritica di intromettersi, nel lasciare che queste canzoni si materializzassero spontaneamente. A volte, era come se Randall dovesse essere la voce della Musa, quando io le stavo resistendo.

Penso che spesso mettiamo di mezzo la nostra autocritica, lasciando che sia molto più dura di quanto debba effettivamente essere, perché, in un certo modo, ciò ci tiene nella nostra zona di comfort. Ma, alla fine, non è che un modo di adagiarsi.

Sì, sono d’accordo. In qualche modo, imparare ad affrontare ciò che è scomodo in te stesso ti porta in posti più lontani. Voglio dire, mi sentivo come se dovessi effettivamente fare un passo fuori dalla mia zona di comfort per dar alla luce questa bellissima musica con la mia voce sopra e in qualche modo penso che il lavoro di artisti, musicisti e poeti sia proprio attraversare quel processo di resa e imparare a farlo sistematicamente. Bisogna imparare ad onorare quello spirito di creatività, quel serbatoio di idee che esistono al di fuori di noi e, una volta che rinunci alle stronzate che l’ego ti propina di continuo, quando smetti di pensare di essere il solo responsabile della creazione di tutto, non puoi far altro che provare gratitudine, perché una volta ogni tanto riesci a sfruttare qualcosa di veramente importante. E penso anche che, una volta che hai attinto a quell’esperienza, sia poi tua responsabilità condividerla con gli altri. 

Come hai detto, questo album non è incentrato su una struttura chitarristica, invece i tuoi primi dischi da solista sembravano avere una relazione con la musica folk americana, specialmente con Townes Van Zandt. C’è ancora una connessione con quel genere quando componi?

In realtà non ci penso mai. È solo quello che succede.
Penso che probabilmente siamo tutti influenzati da ciò che abbiamo sentito, visto o cui abbiamo assistito, e così, quando ho fatto il mio primo disco da solista, di nuovo, è stato un caso, un incidente. È successo perché avevo sempre avuto modo di registrare a casa, sia che si trattasse di un vecchio registratore a cassetta o di un 8 tracce a bobina, verso la fine degli anni ’90. Ad un certo punto, mi son detto “Oh, ho tutte queste canzoni che non rientrano in nessun progetto in cui io stia suonando”, erano le canzoni tranquille che scrivevo quando tutti gli altri dormivano nella mia città di allora, quando finalmente era tranquilla per mezzo minuto.

Non mi sono davvero reso conto di ciò che stavo facendo fino a quando non ho avuto un vero insieme di canzoni e quando è accaduto, mi sono ritrovato con un corpus di opere che aveva bisogno di una casa. Ho dovuto ammettere a me stesso: “Ok, immagino di dover pubblicare questa musica con il mio nome perché queste canzoni sono semplicemente qualcos’altro. Questi sono solo i momenti quieti”, e se ascolto quel primo disco, non ha alcun tipo di direzione precisa, a parte il fatto che i suoi brani sono tutti tranquilli.

Alcuni di loro sono strutturati su chitarre elettriche col delay, altri sono incentrati su chitarre acustiche, ma non avevo in mente il folk Americano, se non forse dopo aver ammesso che in realtà avevo un progetto solista. Potevo scrivere canzoni acustiche e, ora che iniziavo a invecchiare, il mio Io punk rock mi stava permettendo di apprezzare la vecchia musica country o la musica bluegrass e la musica folk celtica. In sostanza, l’ultimo genere cui io abbia iniziato ad approcciarmi come ascoltatore è stata la musica Americana o country, proprio perché, nella mia giovinezza, sono cresciuto ascoltando tutt’altro e schierandomi in opposizione a quelle sonorità.

È stato un viaggio e ho imparato cose nuove man mano che le scoprivo; probabilmente il folk e il country hanno avuto più influenza su di me con l’avanzare degli anni, era come se mi sentissi più a mio agio nell’apprezzare un ritmo come il valzer e un semplice accordo minore, oppure nell’usare strumenti come la pedal steel guitar e il violino per abbellire i brani, rispetto al primo disco, che è per lo più basato su arrangiamenti di archi.

Quindi, direi che gran parte della cifra stilistica dei miei album solisti dipende da come “vesto” le canzoni di dettagli e particolari, ed è in parte ovvio, perché la mia voce si comporta in maniera molto simile sia che si tratti di cantare su di un valzer dal suono occidentale con una pedal steel, sia che si tratti di una chitarra elettrica attraverso un tremolo o di queste nuove composizioni appena uscite. La mia voce ha una versatilità ristretta, posso fare solo determinate cose e quindi diventa molto importante la maniera in cui confeziono le canzoni. Non sono mai stato un grande scrittore di strofe e ritornelli, a volte sono fortunato e ne trovo uno, ma non è la mia specialità.

Non lo so. Voglio dire, potrei essere un figlio del West americano, quindi, forse, è qualcosa che semplicemente non puoi escludere dall’equazione. Quelle influenze c’erano già e vengono fuori quando scrivi, ma non per tua volontà, non è intenzionale, per così dire. Non penso di essere abbastanza furbo da scrivere intenzionalmente. Penso che come ho detto all’inizio, bisogna andare al punto di partenza e in certi casi è davvero come seguire la pista per la tana del coniglio: il processo accidentale è sempre stato il più produttivo per me. Ogni volta che ho un’idea troppo cerebrale, studiata a tavolino, spesso fallisce.

Una volta che hai un’idea su cui lavorare e quindi da comunicare, la parte difficile potrebbe essere proprio come tradurla in modo che altre persone possano capirla. In tutta la tua produzione con i Neurosis, nel tuo progetto solista e anche nelle tue poesie, c’è un riferimento costante al linguaggio. Quanto è importante questo elemento per la tua ricerca e per il tuo processo artistico?

Ieri stavo meditando sul linguaggio. Questa idea ha iniziato a prendere forma nella mia testa e sono sicuro che anche altre persone hanno intuizioni simili. In questo momento, ad esempio, tu ed io stiamo parlando in inglese. So che tu sei italiano e non posso pretendere di sapere di preciso come ti senta tu personalmente nell’utilizzare la tua lingua madre, ma posso parlare per me, con l’inglese, e per mia moglie, che è tedesca e penso abbia gli stessi miei problemi: non credo che noi, come specie, abbiamo un linguaggio appropriato, non penso che ci sia un linguaggio umano che “esista” davvero. Non lo so, forse le popolazioni indigene da qualche parte in qualche giungla o foresta hanno ancora una lingua primordiale concreta, ma non credo che abbiamo un linguaggio che possieda la sottigliezza e la complessità necessarie per sostenere il tipo di conversazioni che abbiamo bisogno di avere come intero pianeta e come una società, soprattutto considerando quanto il mondo stia diventando sempre più intricato. Voglio dire, anche qui negli Stati Uniti, non sento che abbiamo il linguaggio adatto ai nostri scopi comunicativi e non abbiamo nemmeno le orecchie per ascoltare e capire i contenuti che vorremmo trasmettere. Semplicemente non c’è una lingua umana in grado di veicolare sensazioni, emozioni, idee in maniera perfetta, ed è per questo che mi piace la poesia, la musica. Non credo di poterti nemmeno spiegare necessariamente di cosa parlano esattamente le mie poesie e le mie canzoni, né penso che dovrei.

Steve Von Till - James Rexroad
Steve Von Till – foto di James Rexroad

Seguendo questa idea di linguaggio, penso che tu consideri la poesia e i testi delle canzoni in maniera molto differente.

Penso che i testi debbano servire la canzone, per lo meno questo è il modo in cui li scrivo: la musica è sempre al primo posto, i testi vengono sempre come ultima cosa e devono prender parte in un paesaggio sonoro preesistente. Le poesie, invece, devono possedere una pagina. E devono rivendicare il loro territorio, lo stato emotivo di chi scrive deve essere interpretato senza un sottofondo sonoro. Voglio dire, è come se cambi la colonna sonora di un film: di conseguenza cambia anche la sensazione trasmessa dalle immagini. Penso che lo stesso valga per la musica. I testi possono essere interpretati in modi diversi a seconda del suono che sta dietro di loro e quindi devono essergli subordinati, ma la poesia, invece, è un modo creativo di usare il linguaggio, per definire spazi emotivi. Ovviamente ci sono temi e immagini di ritorno, metafore e figure retoriche, a volte potrei avere un’idea, anche vaga, e le parole iniziano a generare dal nulla dei versi che non hanno un significato chiaro nemmeno per me, nel momento in cui li concepisco, ma che, semplicemente, sento essere giusti. Potrei non capire mai di cosa parla una poesia, o un insieme di testi, oppure il significato mi si potrebbe rivelare anni dopo, almeno, so per esperienza che funziona in questo modo con le canzoni.

Non ho mai pubblicato poesie prima d’ora, solo canzoni, che spesso, in realtà, sono solo una specie di collage di vecchie poesie; perché ho bisogno di parole per la musica, e le rubo qua e là, dai miei appunti, per tradurre le voci che sento nella musica. Io lo faccio solo perché ho bisogno delle parole, quando vado a saccheggiare i miei vecchi diari e i miei scritti. Quindi è lì che tutta la mia poesia è vissuta e morta in passato e fino ad ora: o è esistita rinchiusa nei diari personali o è diventata materia prima da cui rubare per i testi delle mie canzoni; ma in qualche modo, quelle parole e quei versi, sono rimasti invariati nella loro natura. Non sempre so cosa significhino esattamente, anzi, accade di rado e quindi in qualche modo, è come leggere tarocchi o leggere foglie di tè o le rune: forniscono solo una struttura, un canovaccio con cui usare il linguaggio ed interpretare la tua realtà in quel momento.

Una sorta di simbolismo liquido che puoi interpretare mentre vai avanti con la tua vita e può cambiare mentre cambi la tua vita. Per così dire.

Assolutamente. Penso di capirti in questo caso.

Mentre leggevo un paio di tue poesie non potevo non pensare a “La capra”, di Umberto Saba, perché lì il dolore diventa un linguaggio universale, che collega tutto, ogni essere vivente.

Per dolore intendi sofferenza?

Più specificamente, il dolore di vivere, il peso di essere vivo e di sopportare le difficoltà che devi affrontare nella tua vita.

Sicuramente sono concetti a cui penso, ma sento di non avere il diritto di lamentarmi del dolore, perché la mia vita è stata un fiore: ho avuto il grande privilegio di poter fare ciò che ho realizzato e di vivere nel modo in cui ho potuto finora. Non che non abbia desideri o che la mia mente non possa ingannarmi per farmi credere d’essere inferiore, per farmi pensare che tutto ciò che ho sia meno di quello che dovrebbe essere, o di aver ottenuto meno di quello che dovrei o altro, ma non è quello che intendo. Per usare un cliché, che problema da primo mondo!

Molte volte sono rimasto sveglio, a contemplare in maniera autoriflessiva la mia stessa esistenza, ma, alla fine, che beneficio ne ho tratto? In un certo senso, sono riluttante a dire che il dolore dell’esistenza sia un grande motivatore, ma al tempo stesso, credo ci siano elementi che ci connettono tutti, specialmente se sei quanto meno una persona compassionevole, che pensa con la propria testa e che si sente un essere umano. Amo riflettere sulla ragione dell’esistenza e provo una sorta di dolore quando considero il potenziale dell’umanità, rispetto a cosa ci stiamo facendo gli uni agli altri, al nostro pianeta e al resto del mondo naturale. Te ne rendi conto quando guardi la grande poesia nelle opere d’arte e nella musica, nel modo in cui le persone sono in grado di trascendere la sofferenza con gioia. E per gioia non intendo la felicità temporanea, la soddisfazione o qualche tipo di cazzata, ma la gioia che si prova quando si è in sintonia con ciò che dovresti fare; in equilibrio, anche se è un termine approssimativo. Ad esempio, quando ho affrontato la produzione del mio ultimo disco, togliendomi dalla mia strada, non permettendo a me stesso di dubitare di tutto e di auto-sabotarmi, ho deciso di seguire il flusso degli eventi, invece che oppormi, stavo andando con la corrente, per usare una stronzata da linguaggio hippie (ride, ndr).

Sto facendo esattamente quello che sento di dover fare e anche se non fossi esattamente quello che potresti definire “felice”, sento di trovarmi in un momento in cui sono davvero presente. Sono nel flusso, sono nel momento e non sono “in pace con l’universo”, bensì sono tutt’uno con l’universo: sto facendo quello che dovrei fare.

Penso che la soluzione sia renderci conto che la sofferenza o il dolore sono eterni e costanti, sì, ma lo sono anche i potenziali di armonia e di gioia e l’allineamento con tutto ciò che ci circonda, bisogna essere in grado di inquadrare le nostre realtà che cambiano, e personalmente non sono mai stato molto bravo a rimanere ancorato al momento. La mia mente è spesso altrove, al prossimo progetto, al prossimo schema o alla prossima grande idea e in questo modo perdo il ricordo di molto di ciò che ho vissuto. Perché non sono dell’umore giusto, non riesco a relazionarmi al momento come invece riescono, ad esempio, i miei compagni di band, quando raccontano di queste incredibili e divertenti storie di esperienze che abbiamo vissuto durante i tour. E io sono lì, sono nella storia, sono nella stanza mentre l’aneddoto viene raccontato… ma non lo ricordo affatto. E a causa di situazioni come queste, pensavo che la mia memoria fosse una schifezza, tipo “Cosa c’è che non va nella mia memoria?”. Non sono un tossicodipendente e sono sano, non ho scuse per non ricordarmi cosa ho fatto… è davvero una vera e propria realizzazione, una presa di coscienza che ho ricevuto ultimamente: è perché non ero davvero presente nel momento. Ero mentalmente fuori dalla situazione contingente, a preoccuparmi per qualche stronzata futura. E quindi sì, bisogna essere presenti nel momento, immagino come sostengono i buddisti. Non sono esperto nelle loro tradizioni, ma sento molti riferimenti al buddismo in cui parlano della sofferenza, di accettare semplicemente che l’universo ne sia pieno, di come, non appena vieni al mondo, diventi tutt’uno con essa e per trovare la pace puoi iniziare solo a sforzarti di essere più presente nel momento e non in una realtà trasognata fatta di aspettative o desideri o qualunque cosa ti passi per la mente.

Nelle tue poesie parli di una “epoca di eclissi e del grottesco” per riferirti ai nostri tempi. Pensi siano tali perché promettono un falso sollievo che, alla fine, ci è poco utile per essere in armonia con il mondo in cui viviamo, non offrendo altro che ombre e false promesse? Qual è il tuo rapporto con questo tipo di tempi?

Stiamo vivendo nella confusione.
Cerco spesso di inquadrare la situazione pensando a mio nonno. Era nato nel 1900 e morì nel 1987. Ha visto le prime automobili, i primi aeroplani, era figlio di immigrati in America, da New York e ha vissuto in tutto il Midwest, fino alla Costa Orientale, ha avuto una grande famiglia ed è diventato un ingegnere, ha vissuto entrambe le guerre mondiali, la Grande Depressione e il Grande Cambiamento degli anni ’60, ed è arrivato a testimoniare l’ingresso dei computer nella vita quotidiana (la mia famiglia è stata tra le prime ad avere un pc, poiché mio padre è sempre stato molto interessato alle ultime tecnologie disponibili). E questo mi fa pensare a quanto cambiamento abbia visto in una sola vita e a quale velocità procedesse questo cambiamento! L’avanzamento tecnologico continua ad accelerare, oggi, fino ad un punto in cui non penso ci siamo neppure ancora evoluti! Non credo che l’evoluzione umana possa tenere il passo, penso che i cambiamenti stiano avvenendo troppo velocemente per noi, che accadano prima ancora che noi li possiamo effettivamente vedere. Prendi ad esempio internet e i social media: non abbiamo mai neppure avuto un confronto come società sul fatto che questo sarebbe stato utile, è successo e basta!

Sì, è vero, ormai il mercato decide a qual punto si debba giungere, quale limite. Quindi vedo tutto questo come un assoluto, la parola grottesco: un po ‘come tutta l’umanità, la ingrandisci dal piccolo al grande e diventiamo questo mostro gigante e disgustoso, che divora tutto sul suo cammino, con ogni cellula completamente concentrata su se stessa e i propri dispositivi. A volte si uniscono con altre cellule, a volte le distruggono, ma in fondo, resta solo questa massa costante di comportamenti disgustosi, ovviamente, se guardo le cose solo con la mia lente più scura.

Diciamo solo che la società ti porta a guardare la realtà in quel modo.

E qui c’è l’eclissi: stiamo bloccando ciò che è significativo, ciò che è buono.
Ombre.
C’è della bellissima arte: musica, espressività, poesia e tutte queste espressioni di grandezza diventano piccole ombre del nostro potenziale.
Anche il semplice atto di fissare la Luna mi può lasciare esterrefatto, è qualcosa che è fuori ogni notte: esci, guardala e trova solo una piccola connessione di qualcosa che è reale perché è vero, lo sai, è reale. Non è una stronzata umana inventata (anche se probabilmente c’è qualche idiota su internet che cercherà di sostenere il contrario). Presta solo attenzione al modo in cui il vento cambia nelle stagioni e a come l’aria ha un odore diverso, si sente diverse volte all’anno, in qualunque cosa, qualcosa che ci dia delle basi nella realtà. Sento che tutto ciò che è importante viene completamente eclissato dal consumismo e dalle distrazioni della nostra età moderna, a prescindere che siano oggetti o informazioni (e disinformazione), stiamo solo divorando tutto.

E lo stiamo vivendo particolarmente quest’anno. Bisogna iniziare a guardare la realtà con occhi nuovi, come togliersi dei vestiti sporchi, indossati troppo a lungo e accettare che ora la realtà è diversa, che ci sono piccole cose che contano più di quanto pensassi.

Qualcosa del genere per me sarebbe la reazione naturale. Si spera che un evento come la pandemia che sta accadendo in questo momento possa portare una prospettiva di quanto siano fragili i nostri stili di vita decadenti e possa dare davvero la priorità all’importanza della nostra salute, della nostra famiglia, dei nostri cari e del collaborare per sopravvivere come specie. Ma amico, cazzo, qui il COVID è diventato un problema. È diventato un argomento di divisione. Voglio dire, dall’alto verso il basso, è stato completamente politicizzato e per vedere questo conflitto in atto, tutto quello che devo fare, anche se viviamo in una zona molto rurale (la nostra casa da sola occupa 12 acri di foresta), è andare a fare la spesa: ci sono persone che pensano che indossare una maschera sia una violazione dei loro diritti. Mi pare proprio che siamo sempre più bravi a sembrare stupidi su questo mondo.

Questa era l’occasione per rafforzare l’unità, ma non è quello che vuole il potere; il potere vuole discordia e diversità, perché dividere e conquistare è ovviamente la strategia migliore, come ci ha insegnato l’Impero Romano, e probabilmente altri prima ancora. Spero che tu, invece, te ne renda conto, spero che la maggior parte delle persone, a parte ciò che ci dice internet, possa ancora pensare alle cose importanti in tempi come questi e non ad essere così egocentrici… ma gli esseri umani sono esseri umani, dopotutto.

Mentre ero bloccato a casa pensavo spesso che forse l’Arte possa e debba avere un ruolo cruciale nel nostro cambio di prospettiva. Può l’arte cambiare efficacemente il modo in cui vediamo le cose e dovremmo elevare i modi di espressione artistica affinché divengano più importanti di quello che erano prima che si verificasse questa situazione, quando li consideravamo solo una merce?

Certo, e penso di essermi sentito così anche prima che diventasse così chiaro. Ne ho avuto prova relazionandomi con chi, nella mia vita quotidiana, non è direttamente coinvolto nell’arte, ad esempio i miei colleghi insegnanti. Anche solo parlando con loro, trovo persone che magari non sono molto interessate alla musica, ad esempio, perché non fa parte della loro vita, o magari non hanno mai letto un libro di poesie perché forse preferiscono romanzi o altro, ma hanno preferito consumare i film dei mass media e si accontentano di evadere e intrattenersi così. Non vogliono guardare qualche oscuro film d’autore o interpretare le arti visive, non gli interessa, e avere queste prove del fatto che certe persone non siano più interessate alla bellezza e alla creatività, mi spiazza e mi lascia basito. Per me tutto ciò che hai menzionato fa parte delle più stabili basi sulle quali costruire un mondo migliore, perché sono le espressioni ultime dell’evoluzione dell’umanità. Sai che tutto il resto è solo una specie di esistenza di livello base: soddisfare il tuo stomaco affamato o i tuoi organi sessuali o qualsiasi altra cosa che riconduca ad un’immanenza basata sul “Ho fatto questo, voglio questo”. Prendersi un momento per pensare, avere un motivo per condividere un’idea artistica, un’idea creativa, contemplare il nostro posto nell’universo, tutte quello di cui abbiamo parlato prima. Forse è per questo che torno alla lingua. Forse è per questo che il linguaggio esiste in primo luogo, perché dovevamo spiegare qualcosa di astratto: dovevamo spiegare qualcosa oltre a mangiare e scopare.

Spero davvero che le persone diano più priorità alle espressioni artistiche e mi rammarica che ciò che sia stato veramente colpito in questo momento siano le esibizioni e la musica dal vivo. Quella era la comunità in cui sono cresciuto sin da quando ero adolescente, all’inizio eravamo un gruppo di punk rocker che si incontravano e facevano spettacoli in un seminterrato, nel garage o nel cortile di qualcuno. Gruppi di persone, che stanno insieme per celebrare la musica e che poi sono diventati qualcosa di più grande… e così ho viaggiato in tutto il mondo, sono diventato parte di una comunità di persone in tutto il pianeta che amano riunirsi per divertirsi, facendo musica intensa, originale, onesta e si ritrovano in gruppi sempre più grandi, amano parlare di questa bellissima musica, uscire e apprezzare lo stare insieme. Ed ora, sembra che tutto questo… sia semplicemente evaporato.