STEVE HAUSCHILDT, Dissolvi

Dissolvi (2018) è il primo album di Steve Hauschildt per Ghostly International. Il produttore di Chicago, una volta accantonata la sua partecipazione al terzetto Emeralds, ha iniziato una proficua collaborazione con l’etichetta Kranky, pubblicando, nell’arco di un solo lustro e con una certa regolarità, Tragedy & Geometry (2011), Sequitur (2012), Where Is All Fled (2015) e Strands (2016). Testimonianze vivide del suo continuo perfezionarsi. L’approccio virtuoso alla materia elettronica, la scelta di percorrere nuovi sentieri e il desiderio di elevare la propria arte costituiscono le premesse su cui fondare un agire creativo: nel caso di quest’ultimo lavoro hanno influenzato la scelta di Hauschildt di registrare all’interno di uno studio privo di finestre, in modo da non essere influenzato da alcun elemento “stagionale” e, in parallelo, hanno imposto il ricorrere sia a un maggior numero di strumenti, sia a ospiti ad hoc per aggiungere qualcosa d’insolito al consueto splendido canovaccio in bilico tra ambient e downtempo.

Alla ricerca del sublime. Dalla dissoluzione del suo precedente progetto discografico, tra i migliori act psichedelici dello scorso decennio, Steve è uscito, addirittura, rafforzato. Delicati arpeggi, drone cupi, echi krautrock, raffinati loop, trame minimal, il tutto ricondotto all’interno di uno scintillio non solo elettronico. La dimensione solista ha affinato le sue capacità compositive e alzato l’asticella in termini ritmici. Non a caso, Dissolvi è parte del catalogo dell’etichetta di Ann Arbor che, per due decenni, si è distinta per l’alta qualità e, in parallelo, per la varietà delle sue scelte. Il titolo fa riferimento alla locuzione latina “cupio dissolvi”, derivante da un’espressione di san Paolo inclusa nella lettera ai Filippesi 1, 23-24. Sciogliere l’anima dal corpo. O anelare un desiderio di mistico annientamento in Cristo. Un concetto che, nel caso dell’artista nativo di Cleveland, è da interpretare come una sorta di via d’uscita dal passato. Paolo di Tarso suggeriva di aderire a Dio in un momento di vera estasi, cancellando la connessione con l’inevitabile mortalità.

Steve Hauschildt si spinge semmai verso una “dissoluzione” musicale, fondata su una logica simile. Il motto spesso indica l’aspirazione a una vita ascetica, ma si adatta anche ad accezioni e usi più laici e profani, esprimendo anche la voglia di rinunciare alla propria personalità, a favore, ad esempio, di un’opera che annovera collaboratori di richiamo internazionale. I loro contributi espandono la gamma del repertorio dell’ex Emeralds e, al di là di qualsiasi prospettiva ontologica, garantiscono una gradevole esperienza d’ascolto, “lanciata” dalle ripetute oscillazioni di “M Path”, da cui deriva una timida melodia per sintetizzatori. Struggente collegamento tanto immaginario quanto retro-futurista tra le due sponde creative dell’Atlantico. Un inizio in sordina, ma con pausa fatta apposta per rimarcare talune profondità. “Phantox”, invece, prende il via con meno slancio, non rinunciando a diffondere nell’aria vibrazioni positive. Come bolle digitali.

“Saccade”, abbellita dalla voce di Julianna Barwick, si contraddistingue tra i frangenti più intimisti dell’album. Il brano, con Rafael Anton Irisarri al basso e Orlando Mendez alla chitarra, è ispirato dall’omonimo, involontario e rapido movimento dell’occhio. Il meno è più. Una condizione artistica che, però, non trova conferma nelle pulsioni di “Alienself”. Hauschildt si cimenta in un esercizio elettronico a bassa gravità, come se avesse lavorato per anni in orbita dub techno. I connotati più minimalisti non si esauriscono qui, perché rappresentano una delle linee stilistiche all’interno di Dissolvi. ““Aroid”, con lo zampino di Taylor Deupree al sintetizzatore, ne costituisce un’ulteriore muscolare dimostrazione, mentre “Syncope”, accompagnata dagli estatici vocalizzi di Gabi, non sfigurerebbe in dj set in bilico tra house e techno. È la cesura tra il vecchio e il nuovo percorso di questo musicista. “Lyngr”, arazzo di voci anonime, fa ricorso al medesimo setup strumentale, con un ritmo quasi identico e, in background, un susseguirsi di melodie elettroniche. Gran finale con la title-track dagli immediati rimandi alla discografia dei Boards Of Canada. Luccicante “braindance” del nuovo secolo.