STEFANO GIUST

Stefano Giust è un puro. È batterista e instancabile deus ex machina di Setola di Maiale, un’etichetta dedita da un quarto di secolo all’improvvisazione nelle sue svariate forme, forte oramai di un catalogo davvero nutrito e di una coerenza e di un’apertura mentale ammirevoli. In occasione di un live ad Area Sismica di qualche tempo fa in trio con Marco Colonna e con Fred Casadei al contrabbasso, lo abbiamo intervistato (la “foto di copertina” è di Ariele Monti ed è stata scattata presso Area Sismica). 

Mi racconti di Setola di Maiale, del perché di questo nome, di come e quando nasce l’etichetta?

Stefano Giust: Nasce 25 anni fa e le motivazioni rimangono le stesse di allora: dare spazio a musiche che non trovano spazio, musiche non convenzionali, anticonformiste e lontane dal mainstream. Il nome suona bene, è ritmico e musicale con le sue vocali e consonanti così disposte, ma è anche un nome provocatorio, potremmo dire poco elegante: ho sempre pensato che il buon gusto è nemico dell’arte. Comunque il maiale, suo malgrado, ha molte qualità nascoste, tra cui quelle prestate all’arte: la sua setola piace ai pittori ma è stata usata anche in campo acustico con il fonoautografo, a metà del 1800, che funzionava proprio grazie ad una setola di maiale.

Come sei entrato nel mondo dell’improvvisazione? Qual è stato, se c’è stato, un disco-porta che ti ha aperto il sipario su questa scena?

Da quando faccio musica, l’improvvisazione è sempre stata parte essenziale del mio processo creativo, ma solo a un certo punto ne ho avuto reale consapevolezza e quello è stato un momento cruciale: coincideva con la scoperta, per me, di nuovi musicisti e dischi: nei primi anni Novanta il disco-porta è stato Atlanta dell’Evan Parker Trio, seguito subito dopo da molti altri dischi di etichette come FMP, Po Torch, Ictus, BYG… Ho scoperto seriamente il jazz afroamericano  con il Coltrane di Impressions e Live At The Village Vanguard… e poi tutto il resto. Come batterista che arrivava dal rock sperimentale, ho così cominciato a frequentare nuovi musicisti legati a queste musiche. Qui nel nord-est, dove vivo, il primo musicista di area jazzistica con cui ho cominciato a suonare il free jazz e l’improvvisazione radicale è stato Ivan Pilat, sassofonista vicino all’estetica di Braxton e al quale devo molto.

Sei friulano e dalle tue parti ci sono parecchi musicisti coraggiosi e talentuosi come Giorgio Pacorig, Claudio Cojaniz, Daniele d’Agaro, i Maistah Aphrica, per citarne solo alcuni. Che puoi dirmi in proposito?

In verità non ho molto a che fare con il jazz della mia regione o del Veneto, i festival di qui non mi invitano a suonare con mie formazioni, salvo il Tarcento Jazz. Però suono con alcuni musicisti di queste due regioni, primi fra tutti il pianista e amico Giorgio Pacorig con cui condivido vari gruppi, ma anche Paolo Pascolo, Giovanni Maier, Massimo De Mattia, Luciano Caruso, Ivan Pilat, Bruno Romani, in passato Armando Battiston, al Chili Jazz Festival in Austria. Un’altra realtà fondamentale in regione è il Dobialab, che insieme all’associazione Hybrida offre la programmazione musicale più intelligente del nord-est. Entrambe sono due risorse vitali per le orecchie più esigenti e avventurose di qua.

E invece a proposito della tua città, Pordenone, e della scena del Great Complotto? Ed oggi, come si vive dalle tue parti?

Pordenone ha sempre avuto tanti artisti e musicisti tra i suoi cittadini, fin dagli anni Sessanta. Il grande poeta Federico Tavan è di Andreis, in provincia di Pordenone. E il Great Complotto fu certamente una esperienza necessaria e interessante, oggi ampiamente storicizzata. La cittadina dei nostri giorni vive gli stessi disagi della nazione, scelte politiche e culturali apparentemente incomprensibili, punto dopo punto, hanno prodotto il degrado culturale ed esistenziale che noi tutti possiamo vedere. Alle spalle di Pordenone c’è Aviano, un piccolo paesino con una grande base militare americana con tanto di bombe atomiche… sarei molto più contento se non ci fossero basi come queste. Perciò alla domanda “come si vive dalle tue parti?” risponderei che siamo noi a doverci prendere cura della nostra qualità della vita, la nostra è una epoca di ignoranza e profonda ingiustizia, bisogna proteggersi in qualche modo, bisogna fare delle scelte, a prescindere dal paese in cui viviamo.

Per la prossima edizione del festival Angelica ci sarà un concerto speciale (qui l’evento su Facebook, ndr) con un collettivo legato a Setola di Maiale ed Evan Parker. Raccontaci un po’.

Ho incontrato Evan Parker un paio di volte nel corso degli anni, occasioni nelle quali abbiamo condiviso lo stesso palco ma senza la possibilità di suonare insieme. È certamente uno di quei musicisti che marchiano a fuoco chiunque si avvicini alla musica improvvisata, un vero Maestro che questa musica l’ha pensata e suonata per primo qui in Europa, insieme a Derek Bailey e altri. Erano gli anni in cui in America c’era l’AACM, a Berlino Brötzmann e compagni, c’erano gli olandesi… c’era una energia creativa verso la fine degli anni ’60 che doveva esplodere. È a questa ‘tradizione’ che ne è conseguita che Setola di Maiale vuole continuare a essere accostata, in un momento storico in cui tutto vorrebbe brillare di luce propria, qui si vuole invece ribadire la continuità di uno ‘spirito enunciato’, una continuità con una attitudine artistica cosmopolita nata nel ‘900 e capace di proliferare ed esprimersi in vie differenti e sperimentali, sempre mossa da una volontà di indipendenza e autodeterminazione. È grazie a Massimo Simonini, il direttore artistico di Angelica, se questo appuntamento è stato possibile: è sì la festa per i 25 anni di Setola di Maiale, ma è anche una ulteriore occasione per promuovere una visione della musica altra. Per l’occasione insieme ad Evan Parker, Setoladimaiale Unit sarà composta da Marco Colonna, Martin Mayes, Patrizia Oliva, Alberto Novello, Giorgio Pacorig, Michele Anelli e me.

Qual è il tuo primo ricordo musicale?

Da bimbo in macchina dei miei genitori. Nei viaggi ascoltavano quelle vecchie musicassette giganti, colorate, eravamo in Svizzera, canzoni italiane, pezzi come ‘Piccolo Uomo’ e quel pezzo famoso di Morricone per il film Sacco e Vanzetti, e poi Celentano, Modugno. Ma ricordo anche il tubare di tanti colombi che si ascoltavano nel terrazzo di mia zia, sempre nel paesino in cui sono cresciuto: non avevo dubbi che quella fosse musica. Poi qualche anno dopo, vidi in Tv un servizio su Stockahusen alla Scala di Milano (credo) e fecero vedere questo pianista che entrava dentro il pianoforte… rimasi folgorato dai suoni e dalle azioni che vidi! Questi tre momenti sono per me i ricordi musicali più remoti.

E se non facessi il musicista, cosa ti sarebbe piaciuto fare nella vita?

La musica per me è sempre stata la cosa più importante, quindi ogni mia scelta è stata ed è in funzione di essa. Qualsiasi altra cosa sarebbe un ripiego, incluso fare il graphic designer, come del resto ho fatto e con interesse, per sbarcare il lunario. Fin da bambino mi vedevo musicista e questo volevo fare ‘da grande’, seppure alle mie condizioni: su questo avevo le idee chiare fin da subito, tanto che rinunciai a ricevere una educazione musicale di routine (le mie prime registrazioni le ho fatte a quattordici anni e uscirono come album in cassetta per etichette di musica sperimentale).

Comporre significa ingabbiare la musica, per te? L’improvvisazione ha anche un valore politico, o sbaglio?

Non ho nulla contro la composizione. Per me ogni possibilità che assecondi la creatività e lo spirito della natura e dell’uomo è auspicabile e dovrebbe essere costantemente incoraggiata. Dovrebbe esserci spazio per ogni idea ed estetica musicale, sia che intrattenga con intelligenza sia che ci faccia riflettere nell’intimità. Purtroppo c’è l’esigenza di non dare spazio alla bellezza che l’Uomo ha prodotto e continua a produrre. Tutto quello che facciamo, ogni nostra scelta, ha una valenza politica ed esprime il nostro grado di consapevolezza, dice di noi. Per me la musica improvvisata non ha mai smesso di essere rivoluzionaria. Se invece guardiamo con attenzione alla musica di ‘successo’ che oggi ‘funziona’ dal punto di vista commerciale, scopriamo che è una musica semplice, ripulita da ogni complessità, si rivolge all’elementare, non ha nulla di sconvolgente, si adatta perfettamente all’analfabetismo funzionale. Per dirla in altre parole, è come se uno scrittore che volesse il successo commerciale accettasse di scrivere semplice semplice: il mercato vuole Topolino, non Kafka. Sono anche queste le scelte – e sono le più importanti – che un artista è chiamato a fare. Rispetto al pubblico si può essere ‘magister’ (colui che diffonde il sapere) o ‘magus’ (colui che utilizza il sapere per i propri fini). Per queste ragioni alcuni artisti parlano oggi di ‘resistenza culturale’: niente compromessi perché “ce lo chiede il mercato”! Queste questioni riguardano ogni espressione artistica, dal teatro alla danza, al cinema, alla letteratura, all’arte visuale, alla musica e potremmo spingerci anche più in là. Chi organizza il programma dei propri festival ha un ruolo molto importante, decide cosa le persone ascolteranno. Ma quali saranno i criteri adottati per la selezione?

presso Defonija, Klub Gromka, Ljubljana – foto di Petra Cvelbar

Trovi in salute la scena dell’improvvisazione in Italia? Un neofita a quali nomi dovrebbe accostarsi secondo te, in primis?

A volte sembra che i musicisti in giro siano sempre gli stessi, ma in realtà giovani di talento non mancano e sono quelli più motivati, quelli che ci danno dentro. Purtroppo per quanto tempo lo faranno, questo non si sa, perché siamo tutti abbandonati a noi stessi. Questa sarebbe una ragione sufficiente per costruire e sentirci parte di una comunità di musicisti dalle simili aspirazioni, una comunità che si fa ‘casa’ in cui trovare comprensione, scambio, stimoli, perfino affetto. Se un neofita vuole accostarsi a queste musiche in Italia, consiglierei di partire dalla storia, Guido Mazzon, Giancarlo Schiaffini, dai loro progetti si scoprono altri musicisti, così vale per Marcello Magliocchi, Fabrizio Spera, Gianni Gebbia, i musicisti di Basse Sfere, la TAI No-Orchestra… Potrei anche dire di dare una occhiata al catalogo di Setola: lì ci sono circa 370 titoli (certo non tutti disponibili, ovviamente) e 700 musicisti: molti di essi raccontano bene la ‘musica italiana’. Comunque, insieme a dischi e artisti, ci stanno bene anche i libri e sono tanti, ma almeno suggerirei alcune bibbie come “Free Jazz / Black Power” di Carles e Comolli, “L’Improvvisazione” di Derek Bailey, “Canto Nero” di Giampiero Cane, “Per Altre Vie” di Guido Mazzon e anche “La Musica Sperimentale” di Michael Nyman. Se si è a digiuno completamente da queste prospettive musicali, affiancherei anche libri di/su Cage, Kagel, Xenakis, Feldman e assolutamente Scelsi. Da questi libri si traggono molti stimoli e molte informazioni, nomi di musicisti da approfondire, estetica… In generale, se non si è avvezzi a queste sonorità perché ritenute troppo difficili e dure, consiglio sempre di ascoltare i brani di un disco ‘uno alla volta’, nel senso di concentrarci su un brano e riascoltare quello e soltanto quello per molte volte: questo aiuta e facilita la comprensione musicale, rende qualcosa che è percepito fin da subito come astratto un po’ meno astratto perché offre, ascolto dopo ascolto, dei punti di ancoraggio (delle boe, seppure fittizie), ovverosia momenti sonori che ci ricordiamo accadere dopo un certo fatto acustico che pure riconosciamo e tutto comincia così a prendere una forma più fruibile, ascolto dopo ascolto ne comprendiamo l’alchimia e ciò infine rende la musica meno ostica e pian piano ne scopriamo finalmente il fascino… la cosa divertente è che poi non se ne può più fare a meno ed altre musiche che prima ascoltavamo, potrebbero incominciare a stancarci già alle prime battute… attenzione quindi.

E invece in Europa e negli Stati Uniti?

Come spesso mi accade, non riesco a fare dei nomi precisi, ho sempre così tanta gente in testa che mi è impossibile far prevalere qualcuno, mi sembra di mancare di rispetto ad altri che non menziono. In genere si pensa che più un musicista suona in giro (più conosce palcoscenici, più conosce/vede/suona con altri musicisti) e più suonerà meglio! E si pensa che la sua musica non soffrirà di provincialismo: tutto questo è naturalmente vero ed è ciò che accade ai musicisti delle scene più importanti al mondo, come quella di New York. Però, da un po’ di tempo, molti musicisti tendono ad allontanarsi dalle grandi città, c’è un rimescolamento delle carte sul tavolo ed ha a che fare con i tempi difficili in cui viviamo: Berlino o Londra non sono più così alla moda. Io non ho la percezione che una città sia prevalente su altre, magari c’è una nutrita comunità artistica in una certa città, ma non mi pare ci sia qualcosa di particolarmente trainante per il resto del mondo. Trovo ci sia molta delocalizzazione e questo mi piace. Per fare un esempio: quando arrivano musicisti da tutto il pianeta per suonare al Dobialab, in un paesino nella provincia di Gorizia, se ne innamorano sempre, merito del posto e delle belle persone, musicisti e appassionati che lo animano; la stessa cosa si può dire di Area Sismica a Forlì. Le grandi città forse non possono più permettersi posti così.