STEFAN WESOŁOWSKI, Song Of The Night Mists
La Polonia contemporanea è ormai assurta a fondamentale hub per la sperimentazione artistica europea. Questo è dovuto, da un lato, alla sua vicinanza (e alla sua economicità, se paragonata) con la Germania, Berlino in particolare; dall’altro, al suo peculiare milieu musicale, ai suoi artisti e festival come l’Unsound di Cracovia.
Prendiamo il caso del compositore e multistrumentista Stefan Wesołowski, uno dei nomi più interessanti del panorama avant-garde polacco. Con Song Of The Night Mists Wesołowski conclude una trilogia dedicata a temi esistenziali ineludibili quali il decadimento, l’amore, l’assenza dell’umano e la morte, preceduta da Liebestod (Important Records, 2013) e Rite Of The End (Ici D’Ailleurs, 2017).
L’album, registrato nel suo studio a Danzica e nella vicina Basilica di San Nicola, incorpora strumenti acustici come pianoforte, violino e contrabbasso, sintetizzatori classici (il Roland Jupiter-8 e il Polivoks sovietico) e l’organo della Basilica. Tuttavia, cruciali risultano i field recordings catturati sui Monti Tatra nei Carpazi: fonografie per lo più inquietanti, come il fragore del ghiaccio che si rompe o il rombo di una valanga nel suo incedere disastroso.
Accompagnato da Maja Miro al flauto in “Glacial Troughs” e dal fratello Piotr Wesołowski all’organo in “Wilhelm Tombeau”, Stefan Wesołowski scolpisce con Song Of The Night Mists una sorta di potente macigno acustico. Se a tratti suona decisamente massimalista, nel complesso è un’opera varia e di raffinato spessore proprio nei dettagli sonori, dando alle varie Kali Malone e/o Lucy Railton una chiara lezione di composizione ben oltre il loro “minimal-minimalismo”, specialmente Malone. L’album è stato missato a New York da Al Carlson (già con Oneohtrix Point Never, Zola Jesus, Lady Gaga, Liturgy) e dal sempre ottimo Rafael Anton Irisarri, che si è occupato del mastering finale.
Il titolo dell’album allude a una poesia dedicata alle misteriose montagne Tatra dal poeta polacco Kazimierz Przerwa-Tetmajer. Le registrazioni tra i Carpazi, effettuate da Wesołowski, raccontano, a suo dire, “di un mondo senza umani: il pianeta esisteva, era bello e aveva significato molto prima che arrivasse l’umanità. Per la stragrande maggioranza della Storia geologica, è stato un luogo senza di noi”. Il compositore traduce in senso acustico le idee dello scrittore tedesco W.G. Sebald (di cui Stefan è esegeta) riguardo a un altro possibile ordine esistente.
“Core” apre l’album con la sua lenta progressione e gli effetti sonori che tendono a creare la spinta primigenia di un pianeta che aspira alla vita nel momento della creazione. Una tensione che prosegue anche in seguito, con “Glacial Troughs” e “Peak”, fino alla potente e filmica “Stalagmite” e che si va infine a concludere nel romanticismo estremo di “Wilhelm Tombeau”, quando la visione di un dipinto di Caspar David Friedrich avrebbe clamoroso ed esplicito compimento sonoro con echi dei mistici album dei Popol Vuh o dei Tangerine Dream di Phaedra, per l’oscillazione leggermente atonale del mellotron.
Certo, qiestp è un album fatalmente drammatico, sebbene in finale l’ascolto risulti assai godurioso e vitale. Wesołowski conferma: “Tutto risiede nel processo fin troppo umano di tentazione-dubbio-ricalibrazione del sé per sovrapposizioni e coincidenze sebaldiane (1), che danno vita a qualcosa che avrà un’altra esistenza, lontano dal suo creatore. Song Of The Night Mists è come un puledro appena nato che deve stare in piedi, scalciare, galoppare senza aiuto”.
(1) Epigrafe dedicata a W.G. Sebald, che ha sovente riflettuto sulla natura della memoria umana, in particolare su come i nostri pensieri e desideri, e i loro risultati, mutino nel tempo: “Somiglianze, sovrapposizioni e coincidenze sono tutti deliri del sé e dei sensi, manifestazioni di un ordine sottostante al caos delle relazioni umane, in definitiva questioni che vanno al di là della nostra comprensione”. Più prosaicamente: questo è un gran disco della Madonna, e pure Nera, dato che siamo in zona!