Seattle Sounds: Badmotorfinger dei Soundgarden

Ho avuto il primo approccio approfondito con i Soundgarden nel 1996 grazie a Down On The Upside, l’ultimo della band e il più controverso, chiacchierato e divisivo, anche se per chi scrive è e sarà sempre un grande album. 

Nell’anno d’uscita del loro capitolo finale avevo circa tredici anni e dall’esplosione del Seattle Sound fino ad allora il mio unico legame coi Soundgarden era il video di “Black Hole Sun”: nella prima adolescenza mi dividevo tra Punk californiano, Green Day, Machine Head, i dischi compilation della rivista Hard!, Helmet e Jane’s Addiction (lato A e B della stessa cassetta), Guns N’ Roses, Nirvana e gli strascichi del mio amore per Michael Jackson nato alle scuole elementari, un pot pourrì di musica che ancora oggi mi lascia perplesso, ma inevitabile per chi vive in una città di provincia del Sud Italia a metà degli anni Novanta. Passo quindi un’intera estate ad ascoltare Down On The Upside ignorando totalmente la storia della band, di quello che sta succedendo nel suo presente, perché il mio unico interesse è di studiare fin nei minimi dettagli un disco completamente differente dagli ascolti a cui ero abituato fino ad allora, pieno di ritmi, suoni, colori e strumenti di vario tipo. Cresco, accresco la mia conoscenza musicale e volo in Inghilterra per uno di quei viaggi studio che sono una delle esperienze più belle da poter fare all’età di 14-15 anni, soprattutto a quell’epoca e considerata la provenienza geografica. Torno carico di storie da raccontare e di dischi comprati a pochi pound: tra loro lo Screaming Life / Fopp Ep cui faranno poi seguito Louder Than Love e finalmente il magistrale Badmotorfinger.

Per chi ignorasse alcuni importanti passaggi della storia musicale, il 1991 fu un anno incredibile, così come il 1971, in cui il mondo si trovò a dover affrontare diverse sfide e allo stesso tempo assistere ad una meravigliosa e dirompente ondata artistica come non se ne vedevano da anni, la cui conseguenza, fra le tante, fu quella di vedere pubblicati dischi diventati poi pietre miliari. Non sto parlando di una manciata di album, ma di un numero così importante da far strabuzzare gli occhi anche a chi oggi è abituato alla sovrapproduzione figlia di questi tempi.

Il Grunge era già esploso a Seattle, tanto da riempire anche le pagine delle riviste patinate della città grazie alle gesta della (fu) piccola etichetta Sub Pop, e stava per raggiungere qualunque vicolo sperduto del mondo. I Soundgarden arrivavano da Louder Than Love, che non aveva ottenuto il successo sperato dalla loro casa discografica, A&M, nonostante gli investimenti fatti, Ben Shepherd era subentrato come nuovo bassista, la Geffen aveva rubato i Nirvana alla Sub Pop, e sempre la A&M avrebbe pubblicato Temple Of The Dog nell’aprile di quell’anno mentre per le strade di Seattle si lavorava all’iconico film che, inconsapevolmente, avrebbe rappresentato un’intera generazione e scena musicale, “Singles” di Cameron Crowe.

Le premesse per un disco epocale c’erano tutte, a partire soprattutto dai forti cambiamenti all’interno del gruppo e nel suo approccio alla scrittura: contrariamente al titolo, composto dal nome dell’album di Ronnie Montrose “Badmotorscooter”, da quello di una band anni ‘70, i Badfinger, e da Motörhead, le dodici canzoni al suo interno non erano un Frankenstein compositivo come i precedenti lavori, in cui era molto il materiale riciclato ed adattato al loro suono del momento, ma rappresentavano l’hic et nunc del quartetto di Seattle. L’ingresso di Ben Shepherd aveva rimesso grandi quantità di benzina nel motore, l’aver azzerato il “furbo” metodo creativo aveva dato alla band molte libertà fino ad allora probabilmente solo immaginate, partendo dalle accordature della chitarra diverse per quasi ogni canzone fino ad arrivare all’utilizzo di un campionamento nell’iconica “Jesus Christ Pose”, i cui rumori iniziali provengono da un bambolotto parlante rotto. Proprio quella traccia, la numero quattro di Badmotorfinger, non solo rappresentava l’identità della band in quel momento ma avrebbe modificato la percezione dell’importanza dei testi nei dischi Rock (fino ad allora considerati in misura minore rispetto alla musica), aumentando l’attenzione dei media rispetto alla parte autorale di un disco e creando qualche fastidio in più alla band a causa di brani come “Holy Water” e “Jesus Christ Pose”, appunto.

Non ci fu, però, una standing ovation immediata per Badmotorfinger: il motore era un Diesel e lo spettro dei Black Sabbath e Led Zeppelin, soprattutto per le qualità vocali di Cornell, ancora veniva percepito troppo rispetto alla evidente furia Punk in brani come “Rusty Cage”, quello di apertura, complice anche la presenza proprio di Shepherd, che da quel mondo proveniva. I tour di supporto ai Guns N’ Roses e Skid Row nei grandi stadi, l’iconicità di Cornell, le abitudini della band in quasi antitesi al trittico “Sesso, Droga & Rock n’ Roll”, il crescente immaginario di un esistente “Conscious Rock” proprio della sempre più vivida scena Grunge con le celebrazioni dell’anti-eroe e l’attenzione verso diversi aspetti politici (vedi anche la polemica di Kim Thayil sul Lollapaloozza del 1992), la disarmante semplicità con la quale si presentavano al pubblico, tutte queste cose e molte altre avrebbero fatto salire sempre più su di giri quel “cattivomotoredito” fino a raggiungere traguardi come il disco d’oro e la Top Ten della bibbia della musica americana Billboard.

Se dovessimo segnare un punto finale di questo capitolo della vita dei Soundgarden dedicato a Badmotorfinger, lo potremmo tranquillamente mettere sulla loro esibizione al Lollapalooza del 1992 (definito “l’anno del Grunge” dalla rivista Spin), di cui si trova traccia su internet e che raffigura un gruppo in totale stato di grazia e nel pieno della forma fisica ed emotiva ma che sta già guardando con un occhio al futuro, perché se vendi mezzo milione di copie con un disco “duro” come Badmotorfinger, cosa potresti fare con qualcosa di più vendibile? Il resto lo sappiamo, è storia, e Badmotorfinger è stato molto probabilmente croce e delizia di una band che a distanza di 30 anni ha ancora tanto da dire.

Insomma, la mia storia con i Soundgarden inizia nel 1996 in concomitanza con la loro fine e la distanza dal loro terzo lavoro discografico è maggiore rispetto alla loro fine come band, con tutto ciò che comporterà in termini di aumento del mito e dell’iconica figura di Chris Cornell, diventato non solo un modello musicale ma un vero e proprio mito che combina insieme qualità artistiche e fascino nella stessa persona.

Un giovane musicista di Seattle diventato leggenda anche grazie alla presenza al suo fianco di Matt Cameron, Ben Shepherd e lo straordinario Kim Thayil che non solo è stato il motivo dell’acquisto della mia chitarra “diavoletto” a 17 anni ma anche la persona con la quale ho condiviso un palco all’Alcatraz di Milano nel 2019, lo stessa che ha visto il nostro concerto, fatto grandi complimenti e che ora ha il disco della mia band poggiato chissà su quale scaffale dall’altra parte dell’Oceano. Forse è anche questa la grandezza di una band e dei dischi che compone: la grande umanità che a noi piace chiamare attitudine.

Se l’erba del vicino è sempre più verde, il nostro giardino però continua a suonare da paura!

Tracklist

01. Rusty Cage
02. Outshined
03. Slaves & Bulldozers
04. Jesus Christ Pose
05. Face Pollution
06. Somewhere
07. Searching With My Good Eye Closed
08. Room a Thousand Years Wide
09. Mind Riot
10. Drawing Flies
11. Holy Water
12. New Damage