SISTER IODINE, Venom

Siete rimasti delusi dalla svolta free dei Wolf Eyes? Orfani degli Hair Police? Prurient ormai è troppo pettinato per i vostri gusti? Aaron Dilloway vi pare spompato? Tranquilli, ci sono pur sempre i Sister Iodine.

Il terzetto parigino dà avvio alle ostilità nel 1994 con un disco che sembra precorrere le sonorità di Sightings e Arab On Radar mescolandole con capricci di varia natura: all’epoca tuttavia vengono etichettati come i “Sonic Youth à la française”, soprattutto per aver fatto da gruppo spalla nel tour francese di Thurston Moore e soci ai tempi di Dirty. Licenziano solamente un altro album negli anni Novanta, quindi una lunga pausa di undici anni a causa del trasferimento di uno di loro negli Stati Uniti. Nel 2007 tornano a incidere, e si tratta del loro ultimo disco che coltiva una qualche velleità di piacevolezza. Da lì in poi è una rapida discesa negli abissi del frastuono più atroce: gli ultimi dischi dei Sister Iodine infatti si caratterizzano per essere una poltiglia informe – o meglio multiforme – di suoni adatti solo ad orecchie rotte a ogni brutalità musicale, e Venom non fa eccezione. Questo giro a pubblicare è Nashazphone, etichetta egiziana che abbiamo imparato ad apprezzare per le scelte musicali coraggiose operate in più direzioni.

Suoni acri e penetranti, distorsioni sbrindellate, la voce che perde ogni connotato umano per dissiparsi in una mistura sonora terrificante, poco o nessun interesse a sviluppare un discorso ritmico: questo è Venom, questa è l’attuale politica dei Sister Iodine. Le pause fra una bordata e l’altra diventano potente mezzo espressivo e, lungi dall’essere foriere di sollievo, si gonfiano di ansia: i pochi momenti di tregua nel marasma (vedi il noise onirico di “Phaze”) somigliano a library music sporca di guano. I Sister Iodine si confermano inveterati irregolari, interpreti convincenti di una libera espressione del disagio, per quanto digeribili a fatica.