ŠIROM, 6/9/2021

La foto della strumentazione dei Širom è di nientepopodimeno che Luca Cavina, bassista di Calibro 35, Zeus! e Arto, ed eroe

Bologna, Freakout.

Chiamatela sfida (persa in partenza?), dolce ossessione, rispecchiarsi (e naufragar m’è dolce in questo mare) o semplicemente dichiarazione d’amore. La musica dei talentuosi sloveni mi ha stregato oramai da tempo. Ho recensito i loro dischi, ne ho scritto a più riprese, forse dovrei posare la penna virtuale e tacere, ma l’urgenza chiama, e quindi. Durante il concerto al Freakout di Bologna (un club minuscolo sotto il ponte di Stalingrado in puro stile old school anni Novanta, una stanza con un palco basso e zero fronzoli, dove tra gli altri, ho visto Negativland, Fishbone, Spidergawd) non ho voluto, o forse potuto adempiere al solito rituale del cronista: prendere appunti per non lasciarsi sfuggire quanto accade tra lo scenario e le orecchie. Avevo bisogno di stare totalmente dentro la musica, senza distrazioni, perché ne sentivo l’intento e il potere curativo, come un canto ancestrale e intimo che rivelasse segreti intraducibili e che chiedeva solo di accostarsi al mistero, alla meraviglia. Strumenti autocostruiti, cordofoni di varie fogge, percussioni, liuti amplificati con una molla collegata a un tamburo, pelli, legni e metalli che sanno di epoche mitologiche, di spazi remoti, essenziali, ospitali: un folk in opposition intatto, sospeso tra vertigini minimaliste, drone da pelle d’oca quando gli archetti scavano nelle grotte dell’anima, un’attitudine vagamente prog (le costruzioni dei pezzi sono sempre meticolosamente articolate e si svolgono spesso in forma di suite, il ritmo tende a scappare da una contabilità immediata), il miracolo di un noise totalmente acustico che si riverbera in frangenti che se fossero suonati con convenzionali strumenti elettrici farebbero pensare a certo post-rock degli albori, forse ai June Of  ’44 o a certe cose della Perishable Records, materiali che trafficavano con un’idea espansa di folk. A volte si pende verso il freak o un che di psichedelia rurale da camera: le costanti di uno stupore matematico sono la maestria nel sondare un ampio spettro di timbri, la magia del suono in purezza (tutto può suonare: da parti meccaniche a minuscoli flauti, da bassi e violini ad una corda a tubi di plastica o di metallo), la grazia data da idee melodiche sempre perfettamente a fuoco, cantabili e avventurose, da mandare subito a memoria per poi dimenticarle subito dopo perché richiedono tanta attenzione per essere colte nel loro sviluppo complessivo e perché ad ogni sguardo e ad ogni ascolto svelano nuovi angoli, nuovi approdi, nuovi punti di fuga, nuove prospettive. Ecco, apre nuove prospettive la musica dei Širom, capace di tenere insieme aria e deriva, estasi e dramma, stupore e accademia (i tre provano e suonano tanto, e si sente, ma è come se le stanze del conservatorio fossero state invase da una vegetazione e loro celebrassero la natura, nelle loro selvatiche sinfonie in miniatura) frugando in quei posti del cuore dove a pochi è dato di arrivare. Il concerto, per inciso il secondo che lo scriba ha visto di questo tour, ha il grande pregio di mostrarci una band molto ispirata e rodata: la primavera prossima uscirà il loro nuovo, quarto disco, sempre per tak:til, dal quale ci hanno suonato qualche anticipazione. Non vi sveliamo nulla (nemmeno il titolo, che è già deciso: il disco è finito ed uscirà tra marzo ed aprile) per non guastarvi la sorpresa, vi diciamo solo che a questo giro all’arsenale di strumenti si è aggiunto il guembri, suonato da Iztok Koren (anche a banjo e percussioni assortite) e la novità calza a pennello al vestito tessuto a sei mani insieme a quelle di Ana Kravanja (voce, violini, percussioni, strumenti autocostruiti) e Samo Kutin (cordofoni, strumenti autocostruiti, e tra questi protagonista una ghironda ibrida che fa letteralmente volare via, percussioni, voce). Come se Iva Bittová, Harry Partch, Joshua Abrams, Steve Reich e chissà quanti altri fossero andati in spedizione in una qualche steppa che ancora non appare sulle nostre mappe e fossero tornati dall’esplorazione portando in dono il segreto di una musica che lascia ogni volta increduli, suonata da popoli che tanto appartengono al nostro sangue non sappiamo ancora raccontare. Necessaria, umana (troppo umana?), luminosa e profondamente vitale. Si definiscono una imaginary folk band e hanno ragione. Noi invidiamo di cuore chi ancora non li conosce e li sentirà per la prima volta e, nel caso ci fossero sordi in giro, lo ribadiamo ancora una volta: uno dei migliori gruppi degli ultimi anni, una scoperta (a Cesare quel che è di Cesare: grazie a Fabrizio Garau per la dritta, azzeccata a dir poco) che non smette e probabilmente non smetterà di stupire.

È inutile tentare la fuga quando la foresta avanza, soprattutto se noi stessi siamo alberi (Tahar Ben Jelloun)