SHXCXCHCXSH, SHULULULU

shulululu

Si parla molto di Autechre di questi tempi, dunque non sorprende che esista un altro duo elettronico irregolare, ancora più riservato di loro (in modo magari più paraculo, basta pensare al look fantasmatico), che stravolge nomi e titoli, privi in apparenza di qualunque significato, e sembra quasi usarne le lettere per disegnare geometrie astratte, lasciando chi ascolta a farsi mille domande senza senso, ma forse semplicemente invitandolo a fidarsi solo del suono e delle pulsazioni, senza cercare un ancoraggio col mondo reale.

Quest’ep del 2018, come l’album del 2016, sempre in uscita per Avian, ha a che fare con la techno – la scena di partenza è quella – nella misura in cui prova a riplasmarla: c’è sempre molta attenzione per le atmosfere (da sogno/incubo, sicuramente non associabili a nulla di davvero esistente e identificabile), ma questa volta sembra tutto più caldo e analogico, come se le ripetizioni ipnotizzanti che caratterizzano le tracce (questo il vero legame con la techno, al netto della maggior inventiva ritmica) fossero ottenute con un vecchio giradischi oppure con un registratore a bobine, di volta in volta rallentato o accelerato e dunque deformante, e la musica provenisse, potente ma attutita, da un impianto enorme sul fondo del mare. A proposito di “immersione”: molto spesso per dare un’idea di come suonava il trip-hop si ricorreva all’immagine del bambino ancora circondato e protetto dal liquido amniotico della madre, e in un certo senso anche questi pezzi dai battiti spesso come ovattati, complice l’indefinitezza dell’insieme, conducono a uno stadio pre-natale. Oppure comatoso, dipende da cosa e quanto abbiamo preso prima.