Shores of Null are always brave

La storia si svolge tra Roma e Pescara, e inizia con due gruppi, attivi uno dal 2003 e l’altro dal 2006. Entrambi passano (anche) per Subsound Records e fanno anche delle date insieme. Secondo noi gli Orange Man Theory, spesso presentati dalla stampa come i figliocci di Steve Austin, suonano una “insana miscela di grind, death e hardcore”. Gli Zippo, invece, sempre per riportare ciò che abbiamo scritto di loro, sono una band stoner a cui la definizione stoner sta piuttosto stretta. A un dato momento (questo è ciò che raccontano in ogni intervista, non vi linkiamo nulla) Gabbo, chitarrista dei primi, e Davide, voce dei secondi, cominciano a pensare insieme a un progetto che guardi a doom, death, black e gothic metal. Più o meno in quello stesso periodo, Raffaele dei Mens Phrenetica, chitarrista, fa sentire a Gabbo un paio di riff di quelli giusti, ed ecco che gli Shores Of Null prendono consistenza (Gabbo e Raffaele scrivono le musiche, Davide i testi). Infine arrivano Emiliano alla batteria e Matteo al basso. Tutti stanno con un piede anche in altre band, hanno provato generi diversi, sono già stati là fuori a suonare e a vario titolo vivono nel mondo della musica. A registrare i loro dischi, per inciso, sarà Marco “Cinghio” Mastrobuono del Kick Recording Studio, tra le mille altre cose bassista degli Orange Man Theory. In sintesi, la squadra c’è e non si tratta di esordienti, tanto che nel 2013, senza un album fuori, si organizzano e aprono le date italiane dei Negură Bunget.

We’re the Kings of Null

A sorpresa, o forse no, Candlelight pubblica Quiescence nel 2014, il che garantisce agli Shores Of Null tutta un’altra visibilità. Una cosa è sicura: il sound è perfetto per l’etichetta fondata da Lee Barrett, così come lo sarebbe per Peaceville. Ascoltandolo, infatti, si finisce per pensare a una serie di gruppi anni Novanta, partiti dal metal estremo e rimasti sempre molto influenti anche dopo varie trasformazioni: Katatonia, Opeth, Enslaved, Paradise Lost, Sentenced… Gli Shores Of Null, in pratica, instaurano un dialogo con capolavori metal di quindici-vent’anni prima e lo fissano – magari fin troppo ripulito – su disco. Come i loro padri, sono ombrosi e melodici, adottano diversi registri vocali e, nonostante dicano sovente di essere doom, sono capaci di cambiare passo in ogni momento e muoversi più velocemente, fino a incorporare il black. Già a questo punto riescono a girare l’Europa, non solo l’Italia, prima coi Doomraiser, poi con Hooded Menace e Mourning Beloveth, infine – dopo la partecipazione al norvegese Inferno Festival – coi Novembre.

A slow Procession to the Burial

Black Drapes For Tomorrow è del 2017, sempre su quella che è stata o è ancora la casa degli Emperor e di altri giganti: una riconferma inevitabile, basta leggere la rassegna stampa impressionante di Quiescence. Sembra però che in termini di promozione questa volta le cose non vadano bene: Candelight, che evidentemente naviga in cattive acque, finisce sotto Spinefarm, quindi indirettamente sotto la major Universal. Se uno guarda le uscite del 2017 dell’etichetta inglese, vede quasi solo ristampe: brutto segno, perché se cerchi monetizzare coi tuoi vecchi classici vuol dire che forse non stai pensando troppo a quelli che potrebbero diventare i tuoi futuri classici (i ragazzi, più avanti, ci daranno la loro versione dei fatti).
Il disco coinvolge Carmelo Orlando dei Novembre in “Tide Against Us”, che mostra non per la prima volta quanto questa band sappia scrivere pezzi che stanno all’incrocio di aggettivi come epico, solenne e tragico: c’è anche la mano di Cinghio, che aggiunge digitalmente gli archi al brano, mossa che – ça va sans dire – finisce per rievocare i My Dying Bride, quasi a voler completare il Pantheon delle influenze novantiane sugli Shores Of Null. Più in generale, questi musicisti hanno voglia di arricchire il sound, non hanno paura di risultare troppo “prog” (passate il termine), quindi non si fanno problemi a registrare episodi acustici meravigliosi come “The Enemy Within” o “Death Of A River”, che ospitano anche il contrabbasso di Fabio Gabbianelli, destinato a tornare in Beyond The Shores. Per non andare troppo lunghi, citiamo ancora due tour europei successivi a Black Drapes For Tomorrow, uno con gli Harakiri For The Sky e l’altro con gli In The Woods, per dire anche di come lo spaziare tra i vari generi appartenenti alla faccia scura del metal permetta al gruppo di aprire per compagni di strada ben diversi fra loro.

Life is at War with us

Arriviamo così a oggi e al nuovo Beyond The Shores (On Death And Dying), composto da un’unica traccia di oltre trentotto minuti con la quale la band ripercorre le cinque fasi di elaborazione del lutto, come esposte dalla psichiatra Elisabeth Kübler-Ross. Un lavoro ambizioso, non solo perché non è stato suddiviso in più parti (così da permettere che l’impatto emotivo fluisca nella forma di un continuum), ma anche per come la scrittura – pur senza distaccarsi dai punti di riferimento già citati in precedenza – cerca (e trova) una sua forma più completa e articolata. Merito anche della scelta di farsi aiutare da alcuni ospiti d’eccezione per donare profondità e identità ai diversi passaggi e ai molti crescendo di cui la traccia si compone, da Mikko Kotamäki (Swallow The Sun) a Thomas A.G. Jensen (Saturnus), da Elisabetta Marchetti (Inno) a Martina Lesley McLean alle voci, ai vari musicisti cui sono affidati piano, contrabbasso e violini. Inseparabile compagno di viaggio il solito Marco “Cinghio” Mastrobuono, a fianco della band dietro la consolle in ogni fase della produzione e pure ospite con il suo basso. Proseguendo con l’enunciazione delle sfide rappresentate da Beyond The Shores, è importante sottolineare la scelta di una label che potremmo definire di casa, visto che parliamo della Spikerot Records, fondata solo due anni fa da Davide con Alessio Leocadia e Antonello Forte eppure in grado di imporsi tra le realtà più attive nonché interessanti dell’attuale panorama nazionale. Insomma, sembra proprio che il gruppo abbia deciso di stringere intorno sé una squadra che gli permettesse di avere il controllo completo su ogni aspetto del famoso terzo album, quello che secondo un vecchio adagio rappresenta la prova del fuoco. Per comprendere se questa sia stata superata o meno basta immergersi nel disco e lasciare che la musica spazzi via i dubbi sulla possibilità di affrontarne l’intera durata in apnea, senza le classiche pause che permettano di staccare.

L’impressione è quella che lo si possa bere tutto d’un fiato senza alcun problema e che anzi, proprio per questa natura unitaria Beyond The Shores riesca a tenere vigile l’attenzione e ad attrarre chi ascolta sempre di più al suo interno, merito del continuo cambio di umori e dinamiche: si passa da momenti in cui la tristezza e le tinte scure dominano lo svolgimento a improvvisi squarci di luce in cui si impone un approccio corale, da parti delicate e dal taglio intimista a sprazzi di violenza con cui le chitarre si sfogano (si sentono anche gli Enslaved far capolino in più di un’occasione). La cura per i singoli passaggi, sia a livello di scrittura che di suoni, testimonia come la band abbia dato il massimo per offrire al proprio pubblico un’esperienza completa e appagante, oltretutto pervasa da un pathos che ancora non era riuscita ad esprimere a questi livelli.
Era facile perdersi nel momento di intraprendere un cammino tanto ambizioso, seguire il proprio ego e strafare, invece gli Shores Of Null hanno saputo realizzare qualcosa di non semplice, ma che lascia la voglia di essere riascoltato più e più volte per assaporarne sempre più sfumature e per scoprirne sempre maggiori dettagli. Per quanto ci riguarda, prova superata senza battere ciglio.

Look for no Allies but yourself: l’intervista

Finire su Candlelight al primo disco. Voi stessi avete detto di essere rimasti quasi sorpresi. Ok, a volte bisogna essere al posto giusto al momento giusto e ok, anche le etichette importanti sanno riconoscere il talento e sanno ancora puntare sui “nuovi”, ma che mosse consigliate alle band metal italiane che sono all’inizio?

Gabriele: Gli Shores Of Null sono nati nel 2013 da musicisti con band attive già da diversi anni. Tutti bene o male avevamo avuto esperienze di contratti discografici. Io con l’americana Supernova Records di Steve Austin dei Today Is The Day, relativamente al primo e in parte al secondo disco dei The Orange Man Theory, oltre a Indelirium Records e Subsound Records (dove stavano anche gli Zippo). Tornando indietro nel tempo a vent’anni fa, avevo una band (Last Green Field) uscita per Vacation House Records, per chi se la ricorda… In ogni caso, Candlelight faceva parte invece di quell’olimpo di label storiche internazionali che in effetti non ti aspetti mai che ti rispondano. Quindi sì, certo, siamo rimasti molto sorpresi quando accadde, ricordo ancora l’emozione di leggere quella mail di due righe che diceva sostanzialmente “molto bello, mi mandate il cd?”. Non direi che eravamo al posto giusto e al momento giusto, però. Abbiamo lavorato sodo e speso soldi nostri per avere un prodotto professionale, due video e un tour auto-organizzato (con i Negură Bunget) già alle spalle quando abbiamo mandato quelle email. E ne abbiamo mandate tante. E rimandate a oltranza fino a ottenere almeno un “no grazie”. Quindi direi che il primo consiglio è questo: non aspettatevi che qualcuno dal nulla esca fuori, magari ascoltandovi a un live in un pub di provincia, offrendovi un contratto milionario. Non è un film americano, purtroppo. Bisogna lavorare molto sodo. Il secondo consiglio è una conseguenza del primo: preparatevi a fare tutto da soli, soprattutto all’inizio. Mettete soldi e lavoro nella musica: se non lo fate voi per voi stessi, chi dovrebbe farlo? Se (e quando) un’etichetta discografica arriva, deve essere solo un incentivo a farlo ancora di più. Una possibilità di allargare il proprio panorama che va sfruttata al massimo, senza perdere un colpo e senza adagiarsi sulla possibilità che qualcun altro faccia il lavoro per voi. Anche perché gran parte delle etichette discografiche oggi i soldi ve li chiede, non ve li dà. E il lavoro che un’etichetta underground può fare è sempre solo una piccola parte rispetto a tutto ciò che serve. Non esprimo giudizi morali sulla pratica di alcune label di chiedere soldi, ma quello che suggerisco è sempre quello di valutare bene le cose. Il problema non è se spendere o meno, ma come spendere bene senza farsi truffare. E di truffatori ce ne sono tanti. Ci sono anche persone che non hanno cattive intenzioni, ma che possono comunque farvi perdere tempo e denaro. Tutti vogliono il successo facile e il sogno di vivere di musica può portare a fare errori. E all’inizio si fanno per forza, è naturale, l’importante è che non siano troppo grandi da far sciogliere la band…
Il terzo consiglio è di stare sempre al passo coi tempi. Il modo di promuoversi degli anni Ottanta era estremamente diverso da quello del 2000, che era estremamente diverso da quello di oggi. So che molti musicisti sono nostalgici e non lo accettano, ma oggi avere un master professionale è alla portata di (quasi) tutti, così come stare online e sui social è fondamentale, ed è così che bisogna presentarsi. Un esempio lampante è il “modulo di submission” della Earache Records.
Ti chiedono solo i numeri che hai già fatto online: le statistiche chiave (di Facebook, del sito internet), un link di YouTube, il numero di monthly listeners su Spotify. Più chiaro di così si muore direi…

Un altro dato importante, quando si parla di voi, è che siete andati più volte in tour per l’Europa. Aggiungiamo a questo l’esperienza che avete anche come organizzatori di concerti. Sempre a beneficio degli altri là fuori, quali sono i sacrifici da affrontare e quali gli errori da non commettere?

Gabriele: Proseguendo il discorso di poco fa, la raccomandazione è sempre “attenti alle truffe”. È logico che un musicista in fondo voglia solo stare su un palco e girare il mondo. Direi che tranne qualche one-man-band black metal, tutti lo facciamo in primis per questo. E quindi siamo molto deboli sull’argomento. E allo stesso tempo trovare concerti live è forse la cosa più difficile in assoluto. Quindi se arriva qualche fantomatica agenzia di promozione, promettendo live per soldi, bisogna stare molto attenti. Ci sono anche persone molto brave e competenti lì fuori in ambito di booking, ma se una band è alle primissime apparizioni, non ha album all’attivo, non ha un pubblico, la verità è che non è ancora il momento di affidarsi a qualcun altro. Se la band non genera un minimo guadagno, perché qualcuno dovrebbe lavorare gratis per noi? Come sempre bisogna fare tutto da soli: partecipare alla scena, andare ai concerti degli altri, conoscere i gruppi, conoscere gli organizzatori, farsi vedere, proporre idee, aiutare nel proprio piccolo, organizzarsi con le altre band del proprio giro per scambi di date e iniziative del genere. È tantissimo lavoro, è molto difficile, ci saranno mille delusioni e anche qui, soldi spesi, ma sinceramente non vedo alternative. Non siate quelle band che se ne stanno sempre a casa, che non vanno mai a vedere un concerto, che si aspettano dagli altri gli sforzi che loro stesse non fanno. E che spesso sono anche quelle che a quei pochi live che riescono a trovare mettono di continuo i bastoni fra le ruote, non prestano la strumentazione, non fanno promozione, pretendono e basta. Queste band, giustamente, i promoter non le chiamano.
All’inizio, cercate di andare in tour. Fare viaggi estenuanti schiacciati in una macchina, mangiare panini per giorni di fila, dormire per terra o quando va bene su qualche materasso sporco, e tutto per poi suonare in qualche paese sperduto davanti a 10 persone può sembrare folle, ma anche questo secondo me è un punto di partenza. I tour underground sono così, bisogna essere bravi a capire quando valga la pena farli e quando no, e resistere a date deprimenti per cercare di fare quelle importanti. E avere una vita lavorativa che permetta una certa flessibilità. Ovviamente è così anche per noi. L’unica cosa che secondo me motiva noi e le altre band è l’osservare sempre una crescita, anche piccola. Altrimenti gli sforzi richiesti sono troppo grandi, e dopo un po’ i musicisti si arrendono.
La situazione dopo il Covid non sarà semplice, tra l’altro: bisognerà tenere duro e fare il doppio dello sforzo. Sono apocalittico? Non lo so. In ogni caso noi saremo pronti.

La decisione di affidarvi oggi ad una label che potremmo definire “interna” non è di sicuro casuale ma ponderata. Quanto ha pesato l’idea di poter avere il controllo diretto sui vari aspetti affidandovi all’etichetta di Dave? 

Gabriele: 100%. La cosa più tremenda degli ultimi 3 anni con Spinefarm è stata la totale perdita di controllo della nostra musica, a fronte di un pressoché totale menefreghismo dall’altra parte. La situazione del primo album con Candlelight è stata tutto sommato molto positiva, ma poi l’etichetta è fallita, è stata acquisita da Spinefarm e lì è crollato tutto. Ci siamo trovati in mezzo a questo passaggio, non ha funzionato quasi nulla e non potevamo nemmeno pubblicare i nostri brani o video perché sarebbero stati bloccati per violazione del copyright (!). Un incubo. A voler trovare un lato positivo (dove proprio non ce ne sono in realtà), quest’esperienza ci ha fortificato molto. Altre band, credo, si sarebbero sciolte nella stessa situazione (alcune delle band del roster, in effetti, lo hanno fatto), ma noi siamo stati tenaci. Abituati in ogni caso a fare sempre tutto da soli, ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo deciso di reagire. Sono nati ben due album, tra cui questo (e un quarto di futura pubblicazione, capiremo, ndr), che è stato un vero e proprio atto di liberazione e sfogo rispetto alla situazione che si era creata. E abbiamo deciso di non dare mai più la nostra musica in mano a qualcun altro che non ci garantisse una determinata qualità del lavoro. E tanto per cominciare, quella qualità e quella libertà potevamo darcela solo noi stessi, supportati da Spikerot Records, etichetta giovane, affidabile e super ambiziosa, che sta lavorando benissimo, e di cui chiaramente possiamo avere totale fiducia, essendo Davide coinvolto in prima persona. Sapremo tra qualche tempo se avremo avuto ragione al 100%, ma in questi primi due mesi abbiamo avuto una risposta da pubblico e addetti ai lavori che non abbiamo mai avuto negli ultimi sei anni. Sempre per tornare al discorso dei numeri che facevamo prima, facendo un esempio, siamo passati da una media di 2-300 ascoltatori al mese su Spotify a circa 20.000. Non c’è altro da aggiungere.

Continuiamo un attimo a parlare della Spikerot prima di andare a fondo sul nuovo album. L’idea di aprire una realtà discografica in questi tempi poteva apparire quasi una scommessa contro ogni probabilità. In realtà, in soli due anni si direbbe che i fatti hanno dato ragione a Dave, Alessio Leocadia e Antonello Forte. Senza rivelare “segreti industriali”, quali credete siano stati i punti di forza della Spikerot?

Davide: Ricordo una sera di qualche anno fa davanti all’Orange, per chi non lo sapesse la Mecca del rock/metal/punk in Abruzzo, Antonello mi prese in disparte e mi disse che aveva intenzione di aprire un’etichetta. Aveva abbandonato il suo lavoro per rimettersi a studiare e, dopo essersi laureato in Comunicazione d’impresa a Roma, era tornato a Pescara con questa visione e voleva me al suo fianco. Molti anni prima ero stato io a scegliere lui come mio collaboratore con l’allora Skeptic Agency (poi Skeptic Events), con la quale organizzavamo eventi metal underground nell’area tra Pescara e Chieti. È stata per me una conferma di fiducia dopo tanti anni. Di fatto, anche se conosci tante persone nella cosiddetta scena, quelle di cui puoi fidarti sono sempre una minima parte, ed è bene avere dei buoni alleati in questo ambito. Ed è così che dopo qualche tempo decidiamo di aprire le porte ad una terza persona, Alessio Leocadia dei Guineapig, nonché collega di Antonello nella grindcore band SpermBloodShit. Anche lui un amico, sempre molto attivo in ambito musicale estremo, anche lui col pallino di aprire un’etichetta. Metterci in società è stata una cosa piuttosto naturale, abbiamo cercato di capire cosa volevamo davvero, unendo senza dubbio le nostre preferenze in fatto di gusti musicali ma focalizzando la nostra attenzione anche sulle colonne sonore, che sono diventate la vera e propria entità parallela di Spikerot, e di questo dobbiamo ringraziare la passione e la tenacia di Alessio, per essere riuscito ad ottenere licenze di titoli incredibili come “I Cannibali” di Morricone poco prima che il Maestro passasse a miglior vita, oppure la nostra trilogia di Mario Bava – “Cani Arrabbiati”, “La Maschera Del Demonio”, “Sei Donne Per L’Assassino”, tutti lavori che non erano stati mai pubblicati per intero prima di quel momento. Oltre a questo sono felice di aver pubblicato le uscite di SednA, Naga e Zolfo, lavori di una professionalità spaventosa, per band che meriterebbero molto ma molto di più. Una delle caratteristiche forti di Spikerot è sicuramente quella di puntare alla qualità, sia dal punto di vista musicale, sia di presentazione, e tutto questo a discapito del numero di uscite. Inoltre è stato molto utile affiancare al lavoro dell’etichetta anche una distro, portare il banchetto ai concerti, ai festival, alle fiere del disco, sai bene di cosa parlo. Non sai quanto ci mancano queste cose.

Il tema dell’album è l’elaborazione del lutto. In che modo la musica e l’arte aiutano a superare una perdita, se possono farlo?

Davide: Ci tengo a dirti che il tema dell’album non è stato scelto a causa di una perdita in particolare, ma il lutto è qualcosa con cui prima o poi tutti dovremo fare i conti. Ognuno reagisce a suo modo, come diceva la stessa Kübler-Ross, al cui lavoro è ispirato questo disco, il nostro dolore è unico come le nostre vite. Senza dubbio la musica e l’arte possono dare conforto e aiutare a superare una perdita, è necessario aggrapparsi a qualcosa e la musica è la più antica medicina che ci sia.

Domanda da “non musicista”: non sarebbe stato più facile e scontato realizzare un disco diviso in cinque tracce come le fasi del lutto descritte dalla psichiatra Elisabeth Kübler-Ross? Non avevate paura che un lavoro costruito come un unico flusso potesse spaventare l’ascoltatore?

Gabriele: Sì, e sì. Ma il pezzo è nato così in pochissimi giorni durante luglio del 2019, i riff si susseguivano naturalmente, dopo un po’ è stato chiaro che sarebbe stato un concept, e funzionava. La volontà era proprio di fare qualcosa di diverso, estremo rispetto ai nostri canoni, abbandonare la nostra cosiddetta comfort-zone, e nel caso particolare non dare alla vecchia etichetta l’altro album su cui lavoravamo da due anni (già registrato e inedito). Poi è successo che ci siamo del tutto sbarazzati di eventuali legami discografici, e finalmente liberi, abbiamo deciso di spingere ancora di più su questo brano, chiamare i vari guest che ci hanno aiutato a completare l’opera, e dargli la dignità di un vero disco. Considera che abbiamo deciso di registrarlo quando avevamo già iniziato a registrare l’altro album. Sono andato da Cinghio e gli ho detto “senti, vorremmo aggiungere un pezzo in registrazione, non è un problema… no?”. Solo che durava 38 minuti…
Per tornare alla tua domanda, è chiaro che la paura che un mattone funeral (?) doom di quasi 40 minuti sia poco digeribile e spaventi gli ascoltatori, soprattutto in questo periodo dove l’attenzione delle persone dura pochi secondi, se esiste. Di sicuro non è la miglior mossa commerciale, ma d’altra parte non era questo l’intento con cui è nato questo brano. Abbiamo cercato di non darci del tutto la zappa sui piedi, pubblicando comunque qualche estratto come anticipazione.
Da un punto di vista prettamente legato al concept, inoltre, le fasi descritte dalla Kübler-Ross non sono del tutto consecutive, si mischiano e si alternano con evoluzioni non banali, anche se a livello “macro” sono distinguibili. Abbiamo voluto rispettare questo andamento anche a livello musicale.
Tornando al lato promozionale, c’era anche il problema che un brano così lungo non avrebbe mai potuto avere un video, e sarebbe stato un peccato perché quella visiva è sempre stata una componente importantissima per noi e rappresentativa della band. Per fortuna però Martina e Sanda Movies stanno compiendo un piccolo miracolo, e tra qualche giorno uscirà un video ad accompagnare l’intero brano, di cui siamo stra-soddisfatti. Facci sapere che ne pensi appena potrai vederlo!

Uno dei dischi più recenti usciti per Spikerot è The Man Behind The Sun dei SednA, altro “one track only album”. È periodo o è un caso? A loro abbiamo chiesto se ci fosse un “one track only album” che li aveva ispirati. Non sembra, ma ce ne sono in tutti i generi (dall’ambient al doom, passando ovviamente per il prog).

Davide: Ora che mi ci fai pensare è passato più di un anno dall’uscita di The Man Behind The Sun, ma continua ad essere una delle uscite più apprezzate. Il fatto che Spikerot abbia messo in circolazione a distanza di poco tempo ben due dischi monotraccia la dice lunga sulle nostre lungimiranti scelte commerciali… Scherzi a parte, un disco deve come prima cosa colpirci, ed è quello che fece The Man Behind The Sun all’epoca. I dischi monotraccia, se fatti bene, rappresentano un’esperienza unica per l’ascoltatore, da vivere quasi come un viaggio. È un formato molto ambizioso, ma che vede i suoi esempi illustri sia nel passato, penso a Crimson degli Edge Of Sanity, a Light Of Day, Day Of Darkness dei Green Carnation o a Dopesmoker degli Sleep, ma anche nel presente: il colossale Mirror Reaper dei Bell Witch o, per rimanere su coordinate più vicine ai nostri lavori, Plague Of Butterflies degli Swallow The Sun o Winter’s Gate degli Insomnium. In effetti è proprio come dici tu, ce ne sono in tutti i generi e spesso sono una figata.

Anche se in Beyond The Shores si possono trovare dei fili che vi connettono col vostro passato e i vostri punti di riferimento, si avverte una grossa spinta evolutiva nel vostro approccio alla scrittura. Cosa è cambiato in questo lasso di tempo per voi come band e musicisti? 

Gabriele: Come dicevo prima, questo disco rappresenta una parentesi particolare nel nostro percorso. Non so dire adesso se il nostro prossimo album proseguirà in questa direzione o cambieremo ancora. Mi riferisco per altro al quinto disco, in quanto il quarto, come dicevo, è già realizzato, e attende solo il giusto momento per essere presentato al pubblico. Sono due dischi registrati insieme che, anche se in modo diverso, hanno inevitabilmente e consapevolmente cose in comune. Credo anche però che sia giusto che il sound della band si evolva nel corso del tempo, ed è normale che tutte le esperienze che abbiamo avuto nel corso di questi anni si riversino nel nostro modo di comporre. Per questo album in particolare, come ti dicevo, le emozioni negative sono state preponderanti, e probabilmente si ascolta un maggiore livello di malinconia e rabbia.
In generale non credo ci sia un evento in particolare, le nostre vite personali però hanno avuto dei cambiamenti (ad esempio Raffaele è diventato papà); siamo inoltre stati in tour con band molto valide che in modo più o meno inconscio hanno sicuramente lasciato il segno nei nostri ascolti.
Per chiudere, ti direi che il cambiamento non è pianificato a tavolino, ma, almeno per quello che mi riguarda, l’atto di comporre nuova musica è un flusso che va in automatico e si subisce, e quindi è influenzato da tutte le esperienze vissute.

Su Beyond The Shores vi siete avvalsi dell’aiuto di alcuni amici, a partire da Marco “Cinghio” Mastrobuono (anche lui in fondo, uno di famiglia) per arrivare a Mikko Kotamäki (Swallow The Sun), solo per citarne un paio. Vi va di parlarci di chi vi ha raggiunto in studio e di come avete gestito questi “ingredienti esterni”?

Davide: Cinghio su questo disco ha suonato anche le parti di basso. Dopo aver registrato tutte le parti dell’altro disco, quello di cui parlava prima Gabbo, il nostro bassista Matteo è tornato ad Eindhoven, dove attualmente vive. Gli ospiti internazionali di questo album sono appunto Mikko Kotamäki degli Swallow The Sun e Thomas A.G. Jensen dei Saturnus, due tra i migliori “growler” in ambito death/doom, di due tra le nostre band preferite. È stato molto strano perché man mano che il pezzo prendeva forma, più ascoltavo i riff e più pensavo “qui ci starebbe benissimo Thomas” oppure “qui la voce di Mikko starebbe alla perfezione”, così abbiamo pensato di toglierci il dubbio chiedendo ad entrambi di partecipare a Beyond The Shores e invitandoli a Roma per prendere parte alle registrazioni. Abbiamo trasformato una fantasia in realtà, con risultati che addirittura hanno superato le aspettative. Poi abbiamo Elisabetta Marchetti, moglie di Marco e sua compagna anche negli Inno: la sua voce si intreccia sempre con la mia all’interno del brano, e le parti con lei sembrano essere molto apprezzate in sede di recensione. Ci pensavamo da un po’ a inserire una voce femminile in uno dei nostri brani e questa volta si è presentata l’occasione giusta, anche per omaggiare il gothic doom anni Novanta che ha particolarmente ispirato questo lavoro. L’altra voce femminile è nettamente più feroce ed è quella di Martina McLean, moglie di Gabbo, mente e braccio di Sanda Movies, autrice dei nostri video ufficiali, ma anche abile screamer. E poi Paolo Campitelli al piano, Fabio e Valentina Gabbianelli al contrabbasso e al violino, insomma è un lavoro che definirei corale, e gli ospiti ci hanno permesso di donare al disco una maggiore profondità, data dalla personalità di ognuno di loro.

Il periodo, si sa, non permette di suonare dal vivo, ma immagino vi siate già posti il problema di come inserire Beyond The Shores all’interno di un live set. Pensate di eseguirlo nella sua interezza o di presentarne degli estratti all’interno di scalette che contengano anche brani dei precedenti lavori?

Davide L’intenzione di portare Beyond The Shores dal vivo per intero c’è e siamo determinati a farlo. Se questo disco avesse avuto un ciclo di promozione ordinario, con un release party e dei live show regolari, l’avremmo senza dubbio già suonato, aggiungendo o meno brani del passato a seconda della scaletta a nostra disposizione. Per i festival estivi in programma per l’estate 2021 porteremo di sicuro esclusivamente Beyond The Shores, è un disco a cui teniamo in modo particolare e anzi, credo si presti ad un concerto ininterrotto. L’idea di suonare solo degli estratti non credo sia percorribile: tutto o niente.

Grazie mille, lasciamo a voi la conclusione di questa chiacchierata, c’è qualcosa che vorreste aggiungere o che ci siamo dimenticati di chiedervi?

Davide: Grazie a te, ringraziamo di cuore webzine come la vostra perché sono il nostro principale amplificatore. È stata una piacevolissima chiacchierata, invito chi ci sta leggendo a prendersi 40 minuti del proprio tempo e di ascoltare Beyond The Shores (On Death And Dying) e di sostenerci se vi è piaciuto, attraverso la nostra pagina Bandcamp o su spikerot.com. Mai come in questo momento il vostro supporto è di fondamentale importanza. A presto!

Shores Of Null

Davide Straccione – voce
Gabriele Giaccari – chitarre
Raffaele Colace – chitarre
Matteo Capozucca – basso
Emiliano Cantiano – batteria

Quiescence (Candlelight, 2014)
Black Drapes For Tomorrow (Candlelight, 2017)
Beyond The Shores (On Death and Dying) (Spikerot, 2020)