SHARON VAN ETTEN & THE ATTACHMENT THEORY, Sharon Van Etten & The Attachment Theory

Se le boygenius di Julien Baker, Phoebe Bridgers e Lucy Dacus hanno unito le forze, amplificandole, Sharon Van Etten – che con la stessa Baker e l’affine Angel Olsen si era attivata dal vivo per il cosiddetto “The Wild Hearts Tour” – si mette adesso alla guida di un vero e proprio gruppo, The Attachment Theory. Ad affiancare la capobranco protagonista al microfono e alle sei corde, sono Jorge Balbi (batteria, macchine), Devra Hoff (basso, cori) e Teeny Lieberson (synth, piano, chitarra, cori), in combutta per la prima volta per le prove di alcuni concerti, nel deserto, e di lì a breve, jam dopo jam, alle prese con canzoni fatte e finite.

Non variano però solo la carta d’identità e il modus operandi, improntato appunto alla totale collaborazione in libertà, senza smanie di auto-controllo, ma anche il sound. C’è infatti un cambio di pelle in queste dieci ispirate tracce, sempre debitrici emotivamente all’alt-folk ma lanciate con decisione verso una nuova frontiera dark dream wave. L’esordio omonimo Sharon Van Etten & The Attachment Theory – oppure, se preferite, da considerarsi come il settimo lavoro in lungo di Van Etten, al solito per Jagjaguwar, a seguire il traguardo della perfetta complessità-immediatezza di We’ve Been Going About This All Wrong – ammanta i temi classici affrontati abitualmente dalla cantautrice americana, vita-morte e amore, di una marcata oscurità.

L’eco degli anni Ottanta trova man forte dalla produttrice, la comunque eclettica e super affermata Marta Salogni, già assieme tra i tantissimi ai Depeche Mode, amante dell’elettronica e della strumentazione analogica, e dello studio, The Church a Londra, in passato di proprietà degli Eurythmics. La glaciale serpentina introduttiva di “Live Forever” setta i toni: Who wants to live forever?, si domanda una Van Etten quantomai avvolgente, quasi fantasmatica, in seguito elegiaca nella risposta (spoiler: It doesn’t matter). Subito dopo arriva lo scintillante pathos shoegaze-pop dell’altra faccia della medaglia, “Afterlife”: Will you see me coming home?. Su questi elevati standard di sospensione si mantiene “Trouble”, dal pulsante giro di groove.

Il divertito-divertente approccio da band è ancor più palese nello sferragliare indie rock di “Indio”, nell’incalzante radiofonia punky di “I Can’t Imagine (Why You Feel This Way)” o nelle rifrazioni vagamente post-stoner di “Southern Life (“What It Must Be Like”), mentre sono i riff dei tasti a guidare “Idiot Box” e “Something Ain’t Right” – da qualche parte tra Siouxsie, Patti Smith e The Organ. In chiusura, c’è modo di sperimentare con le dilatazioni di “Fading Beauty”, minimale, e “I Want You Here”, in crescendo epico, dove è il canto a rappresentare il timone al quale aggrapparsi. Van Etten & co. hanno semplicemente creato una propria dimensione, in un album bello dall’inizio alla fine.