Seattle Sounds: In Utero dei Nirvana

Quest’anno cade il trentennale di Nevermind, disco che viene comunemente considerato come lo spartiacque all’interno di un genere, la perdita dell’innocenza di quello che, in maniera tutt’altro che incontrovertibile, siamo soliti definire grunge: per quanto infatti sia un termine storicizzato, alcuni sottolineano puntualmente come esso vada a indicare più che altro un fenomeno di costume, preferendo così focalizzare il discorso sull’aspetto musicale della scena venuta fuori nell’area di Seattle a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta, figlia del punk californiano di un decennio prima come pure di certo hard rock anni Settanta. È altresì innegabile che quei suoni che, sia pure semplicisticamente, etichettiamo come “grunge” ebbero un’influenza massiccia non solo sui nostri ascolti adolescenziali ma anche e soprattutto sui nostri stili di vita: si passò da quella spinta vitalistica retaggio degli Eighties a un’adolescenza sanamente problematica animata da una specie di esistenzialismo a base di Roipnol e vino sfuso. Nel settembre del 1991 uscì Nevermind e da quel momento cambiarono un bel po’ di cose: se quel disco si diffuse lento ma inesorabile come un gas nell’aria stagnante di provincia – quella dove sono cresciuto, quella dove ancora vivo non senza pena – il suo successore, In Utero, fu la scintilla che fece esplodere la stanza. Ho deciso quindi, in barba agli anniversari, di scrivere dell’ultimo atto della band di Cobain e soci, quello che, nell’annosa disputa su quale sia il miglior album dei Nirvana, ritengo sia il vincitore, quello che penso rappresenti il principale lascito dei tre: In Utero, molto più del suo predecessore (considero Bleach fuori competizione) suona pesantemente intaccato da un malessere che invece di concretizzarsi in cupa disperazione si sostanzia in un’euforia drogata, a tratti straniante, che lo rende a mio avviso la vera pietra miliare – oltre che tombale – nella breve vicenda della band di Aberdeen.

In origine il disco avrebbe dovuto chiamarsi “I Hate Myself And I Want To Die”, frase che il frontman utilizzava ogniqualvolta gli chiedessero come stava: su insistenza di Novoselic e per evitare prevedibili grane nella distribuzione del prodotto si preferì utilizzare come titolo quello che parrebbe essere farina del sacco di Courtney Love. Insoddisfatti del lavoro di Butch Vig su Nevermind, una produzione a loro dire troppo raffinata, la band si mise nelle mani di Steve Albini, produttore di due dei dischi preferiti di Cobain, Surfer Rosa dei Pixies e Pod di  Breeders: a lavoro completato pare che i tre storsero di nuovo il naso. Nelle loro intenzioni In Utero avrebbe dovuto essere un disco molto più “colorato” rispetto al precedente, rappresentare un’evoluzione nel suono della band e nello stesso tempo rimanere fedele a quegli stilemi ormai ampiamente apprezzati dal pubblico, in un tentativo che possiamo considerare in buona parte riuscito, nonostante il peso dello spleen di Kurt sull’intera opera. Le tracce che compongono In Utero per la maggior parte sono state scritte molto tempo prima, praticamente assieme a quelle che troviamo in “Nevermind”, tanto che possiamo parlare di un lungo parto gemellare che ha dato alla luce due dischi segnati però da differenze notevoli.

L’angoscia adolescenziale ha ripagato bene, ora sono annoiato e vecchio, nell’incipit del disco c’è già tutto: le prime strofe di “Serve The Servants” suonano come l’epitaffio in anteprima della band, mentre la sua allegria posticcia fatta di Prozac sembra guardare avanti, prefigurare il suono che (non) sarà. “Scentless Apprentice” è essenzialmente roba di Dave Grohl, costruita tutta su un riff basso-batteria dove la chitarra in maniera alterna si unisce al coro e scimmiotta il cantato: il titolo si riferisce al protagonista de “Il Profumo” di Patrick Süskind, romanzo particolarmente amato da Cobain (e da una folta schiera di milf, almeno per tutto il decennio successivo…). “Heart-Shaped Box” è il primo singolo estratto dall’album, reso famoso anche dal videoclip girato da Anton Corbijn (una singolare crocefissione, corvi di plastica, papaveri, una bimba del KKK, i bellissimi jeans viola di Novoselic): il pezzo segue il più classico dei canovacci nirvaniani, caratterizzato dall’andamento pacato della strofa e da un ritornello avvelenato. Stesso discorso per “Rape Me”, in cui il suono pulito della chitarra impatta contro la violenza del chorus: nel testo, in cui si fa ovviamente riferimento allo stupro, Cobain – all’apice della sua mania di persecuzione – si immedesima nella vittima laddove il ruolo del violentatore è attribuito ai mass media con le loro continue incursioni nella vita privata del cantante. Il brano avrebbe dovuto essere eseguito per la prima volta agli MTV Music Awards del 1992: la band su pressioni dell’organizzazione – a causa del testo non proprio spensierato- decise all’ultimo momento di ripiegare su “Lithium”, limitandosi a un accenno del brano incriminato a inizio esibizione, giusto per far gelare la camicia di qualcuno (a fine performance Grohl si diverte invece a sbertucciare Axl Rose, con il quale c’era stato un alterco nel backstage). Con “Frances Farmer Will Have Her Revenge On Seattle” Cobain aggiunge un ritratto alla sua galleria di reietti, quello dell’attrice sua conterranea, la cui storia personale è segnata da eccessi e disagio e il cui nome egli darà alla sua unica figlia: I miss the comfort in being sad canta rauco, non serve più nemmeno crogiolarsi nella propria tristezza mentre gli strumenti viaggiano sulle montagne russe. “Dumb” è fra i pezzi che meglio rappresentano la voglia di novità del gruppo: il violoncello apporta un’eleganza finora inedita, Grohl procede a forza di rimshot mentre Novoselic gigioneggia sulle quattro corde. Quindi è la volta di “Very Ape”, uno schiacciasassi mandato al massimo, e “Milk It”, fra i pezzi più atipici della band, con la parte strumentale che lascia in ombra il cantato. “Pennyroyal Tea” è un’elegia della depressione che inizia con un riferimento a Leonard Cohen per arrivare all’invito a bere un infuso di erbe dal potere abortivo: la musica e le parole sembrano qui zampillare a fatica fino alla deflagrazione del ritornello. “Radio Friendly Unit Shifter” è il primo brano dell’album che mi capitò di ascoltare e probabilmente il pezzo dei Nirvana che preferisco in assoluto. Lo mandarono in apertura di una puntata di Planet Rock, gloriosa trasmissione di StereoRai, e all’epoca mi spedì letteralmente in orbita con quel barrito iniziale della chitarra, la quale poi prende a simulare segnali radio indecifrabili presto disciolti in una nuvola di feedback; la pelle del rullante sembra debba cedere da un momento all’altro, mentre la voce di un Kurt che pare finalmente a suo agio risulta insolitamente calda. Il parossismo di “Tourette’s” sembra rimandare ai tempi di Bleach: qui le tonsille di Cobain sembrano volere uscire da un momento all’altro dall’impianto stereo. Chiude il disco “All Apologies”: nel brano ispirato alla vita familiare del frontman troviamo di nuovo il violoncello, di nuovo una strana sensazione di leggerezza adombrata da quel malessere sfuggente.

L’anno successivo alla pubblicazione del disco i Nirvana tornarono in Italia, Modena, Milano e nel mezzo l’apparizione in Tv dalla Dandini e il concerto al Palaghiaccio di Marino: in paese si fecero le macchinate per andarli a vedere, io non andai. I più concordano nel dire che fu un’esibizione tutt’altro che memorabile: qualcuno ci mise molto tempo a tornare a casa, qualcuno da quel concerto non è mai più tornato.

Tracklist

01. Serve The Servants
02. Scentless Apprentice
03. Heart Shaped Box
04. Rape Me
05. Frances Farmer Will Have Her Revenge On Seattle
06. Dumb
07. Very Ape
08. Milk It
09. Pennyroyal Tea
10. Radio Friendly Unit Shifter
11. Tourette’s
12. All Apologies