Seattle Sounds: Houdini dei Melvins

È facile definire Houdini dei Melvins un disco d’illusionismo, ma tant’è.

È il disco più noto della (mai) premiata ditta, che la rivela in qualche maniera a un pubblico più vasto, eppure è già il quinto full length macinato dal 1983 in avanti. Nell’83, il mio anno di nascita, Roger “Buzz” Osborne, Matt Lukin e Mike Dillard, presto sostituito da Dale Crover, formano la band a Montesano, nello Stato di Washington. I Melvins vedono la luce, si affacciano in superficie dalla fanghiglia del sottosuolo, dunque, e la reazione è a catena. Crover, in parallelo, si trova a suonare su alcuni pezzi del debutto dei Nirvana, e i Nirvana diventeranno a ogni effetto i Nirvana quando Osborne presenterà Dave Grohl a Krist Novoselic e a Kurt Cobain – che in estate, sempre nell’83, decide in sostanza di fare sul serio, galvanizzato per l’appunto dalla botta devastante di un concerto dei Melvins. Lukin, intanto, fonda i Mudhoney insieme a Mark Arm e compagnia sbraitando. Quasi il big bang della città di Seattle, 98,5 miglia di distanza, e dintorni, o perlomeno uno degli involontari inneschi più rilevanti.

Dieci anni dopo, 1993. I Nirvana risplendono all’apice della fama, ottenuta grazie a Nevermind. Cobain è una star e non perde occasione per sponsorizzare al grande pubblico i Melvins, al pari dei vari Mudhoney, TAD, Vaselines… Magia: il punk-rock diventa mainstream. Le ruvide sonorità propagate dai boschi situati nella costa nord-ovest degli Stati Uniti confluiscono a torto o a ragione nella cosiddetta scena grunge, quella che abbraccia varie altre combriccole di anti-eroi bruciati(si), come Screaming Trees, Soundgarden e Alice In Chains. E non è un gioco di prestigio, questo scambio di ruoli? Cobain produce sei dei tredici brani nella scaletta di Houdini, oltre a contribuire a chitarra e percussioni in un paio di essi, e si trasforma in pratica in garante per il suo stesso mentore/modello Osborne, finché la Atlantic Records, per la prima volta una major, che ad ogni modo liquiderà il gruppo quattro anni più tardi, appone il suo marchio sul disco, ristampato nel 2016 in vinile da Third Man Records.

Così, il 13 settembre 1993 esce il miglior album dei Nirvana, quello che amo di più, In Utero. Passa una settimana o poco più, e il 21 settembre tocca a Houdini. Il cagnolino a due teste sull’iconico disegno di copertina, a opera di Frank Kozik, non è che un docile Cerbero in miniatura, utile a rappresentare quella fusione bifronte tra sonorità heavy e struttura-canzone professata ai media dal discepolo Cobain. Sonorità heavy in ideale linea di discendenza con i Black Sabbath, basse, profonde, slabbrate, tendenti allo sludge e al doom. In fondo tra Osborne – che in verità ha sempre indicato come principale fonte di ispirazione i Black Flag anziché i Sabbath – e Osbourne cambia solo una vocale, e in fondo i Melvins suoneranno all’Ozzfest nel 1998. I biondi pargoletti, tornando alla succitata copertina, dovevano provenire comunque sia dal pancione dei Nirvana per scalare di riflesso le classifiche. Si fermeranno al 29esimo posto nella chart delle novità stilata da Billboard.

Partiamo dai singoli del disco, supportati dai relativi videoclip per tentare addirittura l’assalto a MTV. “Hooch”, scelta fra le migliori canzoni degli anni Novanta da Pitchfork, è un esempio immediato di riff dall’aggressivo incedere catacombale e voce disgustata persino nell’approcciare la melodia, ed è schifosamente irresistibile. “Lizzy” è una ballata che va dall’ingannevole intimismo alla più minacciosa oscurità, mentre “Honey Bucket” è un piccolo carro armato metal-elettrico. Procedendo, It’s a big, dark world now / It’s a big, dark Hell in “Night Goat”, versione riveduta e ri-scorretta ad arte di un singolo pubblicato in origine nel 1992, e c’è spazio anche per una cover dei Kiss, una fissa per King Buzzo, cioè “Goin’ Blind”, risalente al 1974. Cover che nel medesimo 1993 i Melvins eseguono dal vivo al fianco di Gene Simmons in persona, nel corso di un tour condiviso con i Primus. Ciononostante, Simmons, per l’album-tributo Kiss My Ass, preferirà la reinterpretazione dei Dinosaur Jr. a quella dei Melvins: che beffa!

Altro da dire? Ascoltate i sette e passa minuti lenti, saturi e ottundenti di “Hag Me” per verificare quanto gliene fregasse a King Buzzo e soci della celere radiofonia. Sebbene, ché la bipolarità impera, episodi tirati e concisi come “Teet” e “Copache” schizzino con ferocia minimale di rintocchi e riverberi dal Sottosopra, più sotto che sopra. Cobain, detto del singolo “Hooch”, mette le mani sul pop deviato di “Set Me Straight”, sull’opprimente aria militare da post-“Paranoid” di “Joan Of Arc” e sulle tracce più strambe del lotto, ovverosia sulle allucinazioni psych di “Sky Pup” e sulle ossessioni ritmiche di “Pearl Bomb”, per non dire della conclusione affidata a una “Spread Eagle Beagle” che supera i dieci, cacofonici giri strumentali di orologio ponendosi tra Captain Beefheart e le ulteriori sperimentazioni a venire nella successiva parte di melvinsiana carriera.

Però, ecco, c’è probabilmente un’illusione ottica, perché la storia è più intricata. Dalla bocca di King Buzzo: Abbiamo fatto un sacco di session con Kurt Cobain nelle vesti di produttore, ma siamo arrivati al punto in cui era così fuori controllo che praticamente lo abbiamo licenziato e abbiamo preso strade diverse. Chi c’era racconta di una tragedia in atto, di un delirio di droghe e scaramucce e incomprensioni, di un disco del diavolo in seguito affidato a Garth “GGGarth” Richardson con l’aiuto di Billy Anderson. Altra illusione: nel booklet e nelle foto del periodo figura Lori “Lorax” Black, la figlia di Shirley Temple che aveva a suo tempo rilevato Lukin, ma in realtà alle note di basso provvedono gli altri musicisti in organico. Il delirio delle incisioni equivale forse al delirio lirico, tutto un nonsense di colori, surrealismo e trame animalier, tra gufi rossi, suoni gialli, acque verdi come zuccherini, teste che si aprono in mega-sorrisi e via smattando.

Houdini è un trick and treat, è dolcetto andato a male e scherzetto alle aspettative altrui. È una miccia nell’esplosione complessiva degli eventi dell’epoca, crocevia del caso al quale si sono affacciati in tanti. È l’inizio di qualcosa, di qualcosa di freak, come lo è per i fanciullini che guardano il materializzarsi della difformità nel loro rassicurante-inquietante iter quotidiano, ed è un’anomalia di per sé, di fatto irrinunciabile.

Tracklist

01. Hooch
02. Night Goat
03. Lizzy
04. Going Blind
05. Honey Bucket
06. Hag Me
07. Set Me Straight
08. Sky Pup
09. Joan Of Arc
10. Teet
11. Copache
12. Pearl Bomb
13. Spread Eagle Beagle