Seattle Sounds: Apple dei Mother Love Bone

I Mother Love Bone rappresentano un caso a sé, una vera e propria mosca bianca all’interno di una scena tanto variegata quanto riconducibile ad un modo di approcciare il suono e la scrittura, ma anche di affrontare la vita e soprattutto la musica. Perché, nei pure brevi ma intensi tre anni di esistenza, la band rappresentò l’opposto dell’attitudine schiva e “autoreferenziale” della propria città, guardò dritta ai riflettori e agli stadi dove era intenzionata a dar filo da torcere agli stessi Guns’n’Roses in cui militava il concittadino e amico Duff McKagan, considerato da parte della sua scena originaria e una pecora nera per la scelta di fuggire dal proprio background punk (tra le molte band più o meno estemporanee di cui è stato membro basti citare 10 Minutes Warning e The Fartz). Andiamo però con ordine, partendo dalle radici della formazione e dall’incontro quasi clandestino tra due membri degli ancora attivi Malfunkshun, il cantante Andrew Wood e Regan Hagar, con gli ex  Green River Jeff Ament, Stone Gossard e Bruce Fairweather, una scintilla che avrebbe dato luce alla stella più luminosa di quel cielo (e non solo per la passione per i glitter di Wood), destinata purtroppo ad una breve esistenza.

Sui Green River torneremo di sicuro, sui Malfunkshun vale la pena invece soffermarci brevemente, perché da loro i Mother Love Bone attingono la scintilla di creatività e genio, ovverosia quel folletto biondo innamorato da sempre di Elton John, Queen e Kiss che risponde a seconda dei casi al nome di Andrew Wood o di Landrew the Love Child, ultimo di tre fratelli, cresciuto da due genitori tanto differenti quanto in accordo nell’assecondare le doti musicali dei figli. Proprio con il fratello maggiore, Kevin, Andrew ha fondato la sua band, uno strano ibrido che mette insieme la passione del cantante per il glam settantiano e per i frontmen istrionici, quella di Kevin per gli assoli interminabili stile Led Zeppelin e l’indole punk del batterista Regan Hagar, l’unico a vivere a Seattle (gli altri due abitano a Bainbridge). Eppure la band in qualche modo funziona: riesce ad aprire i concerti di nomi importanti e ad apparire sulla famosa compilation Deep Six a fianco di Green River, Melvins, Skin Yard, Soundgarden e U-Men (al tempo i veri big della città). Il fatto è che, sebbene si tratti di uno strano freak nato per provocare e spiazzare il pubblico, i Malfunkshun possono contare sul carisma coinvolgente di Andrew e sull’essere parte fondamentale della scena cittadina sia sul piano umano che musicale. Il cantante, una volta trasferitosi a Seattle, condivide case con Blaine degli Accüsed e con Chris dei Soundgarden, oltre ad avere un carattere affabile e sempre pronto alla battuta che lo rende un beniamino della scena, amato dagli altri musicisti e benvoluto da tutti. In fondo è nato per intrattenere un pubblico e stare su un palco, come dimostra sin da piccolissimo quando si sposta di continuo per seguire il padre artificiere in aeronautica, tanto che, come la famiglia si trasferisce definitivamente a Bainbridge, riceve in regalo un piano rosa su cui comincia a comporre già in tenera età: insomma, la sua è una strada già segnata e la sua determinazione non conosce tentennamenti. Ovvio, quindi, che nel momento in cui capisce che con i Malfunkshun andrà poco lontano e si presenta l’occasione di unirsi ai tre ex Green River (altrettanto determinati e ambiziosi), non perde tempo e afferra la palla al balzo, anche se questo scherzo giocato al fratello lo segnerà e sarà ispirazione (come ogni altro dramma della sua vita) per un testo dei futuri Mother Love Bone.

La nuova creatura nasce solo nel 1987, eppure calamita immediatamente l’interesse, prima di tutto verso i musicisti coinvolti, che ne fanno una vera e propria all star band e, in secondo luogo, per il loro carattere che lascia presagire una rincorsa dritta verso i piani alti della classifica non solo cittadina: il piano è tanto ambizioso quanto ben studiato, visto che, anziché spostarsi come Duff a Los Angeles, i cinque intuiscono che Seattle è destinata a finire presto sotto i riflettori, e decidono quindi di restare nel posto (finora) più triste e grigio degli USA.

Sostituiscono anche il batterista, che non sembra condividere appieno i sogni degli altri, e prendono il batterista che tutti da quelle parti vorrebbero: Greg Gilmore – che inizialmente aveva tentato l’avventura losangelina con il futuro bassista dei Guns’n’Roses – è a tutti gli effetti l’uomo giusto al momento giusto, anche perché l’altra opzione al suo livello, Matt Cameron, è già impegnata con i Soundgarden. In pratica si tratta di un successo annunciato e, infatti, merito anche delle amicizie giuste e dei contatti raccolti da Ament negli anni, nonostante il riscontro di pubblico inferiore alle aspettative, la band attira subito le attenzioni dei discografici, finché è la Polygram a spuntarla sulle altre major concorrenti e si prepara a mandare in studio la band (già autrice dell’ep Shine) per l’album di debutto. Il disco previsto per la primavera del 1990 è purtroppo destinato ad uscire postumo e con qualche mese in ritardo sulla data annunciata. Perché quella dei Mother Love Bone, come dicevamo, è una storia destinata a finire in tragedia, proprio come le storie degli dei greci che vivono sul monte Olimpo, anche se l’Olimpo da cui dice di esser sceso Andy è quello dello stato di Washington, poco distante da Seattle, e non certo l’omonimo monte mitologico. Landrew, il figlio dell’amore, non è, infatti, solo un intrattenitore nato, un angioletto biondo che a scapito della bassa statura fa perdere la testa alle ragazze, quello pronto sempre a sdrammatizzare ogni situazione difficile con una battuta e un catalizzatore di energie, ma ha in sé anche dei fantasmi che tenta di sconfiggere con l’eroina, cui è stato introdotto da una ex fidanzata, mentre la compagna Xana, alla quale dedica canzoni e che lo accompagna fino alla fine, tenterà sempre di tenerlo lontano dalla roba. Finisce due volte in comunità per disintossicarsi: l’ultima, proprio prima di andare in tour per promuovere il disco in uscita, sembra quella buona, eppure poco tempo dopo viene trovato dalla fidanzata a casa, in overdose, per morire dopo tre lunghi giorni di agonia, con tutti i suoi cari accorsi al capezzale. Chris Cornell ha definito la sua morte la vera perdita dell’innocenza per Seattle, molto più della successiva scomparsa di Cobain, probabilmente il vero inizio della fine per la scena cittadina o di certo il punto di non ritorno. Nulla sarà più come prima, come ben sottolineato anche nel libro di Valeria Sgarella uscito nel 2017 per Ledizioni.

Questa la storia, ma cosa si può dire di Apple sul piano musicale?
Perché al di là della sua importanza storica e del passato/futuro dei suoi artefici, questo album, uscito postumo e figlio di una band durata solo tre anni, merita un posto in prima fila quando si parla di Seattle. Di sicuro, siamo lontani da quell’umore triste e dimesso (gli americani direbbero stripped-down) proprio di ciò che la stampa definisce “grunge”: qui, al contrario, c’è grandeur, si guarda al glam dei Settanta e a Los Angeles, ma lo si fa con un’anima punk, si celebra la vita ma si racconta di morte e perdite, insomma torniamo ancora una volta alla tragedia greca in tutta la sua forza catartica, perché i testi di Andrew sono, in fondo, un tentativo di esorcizzare i propri demoni e chiedere scusa alle persone cui ha fatto male, sono una celebrazione dell’amore che il cantante vuole distribuire ai suoi ascoltatori ma, come canta lui stesso in “Crown Of Thorns”, è un amore che fa soffrire e lascia soli, un amore destinato a finire in tragedia appunto. A fianco dei testi visionari di Wood, vera e propria “marcia in più” della band, nel loro stile ermetico, frutto di immagini astratte e per questo spesso difficili da comprendere (si pensi, per esempio a “Man Of Golden Words” e al “tempio del cane” dove il narratore dice di abitare, tanto che diventerà il nome di un altro supergruppo fondato in suo onore poco dopo la sua morte), la band vanta la presenza di quattro tra i migliori musicisti di Seattle. Si tratta, infatti, di personalità forti che non hanno paura di giocare con gli stili e di apparire ambiziosi, puntigliosi oltre ogni logica per cercare il suono giusto e l’incastro corretto, insomma un dream team che fa del tutto per dare la giusta spinta ai brani e sa mettere in note la visione del cantante, si tratti di suonare hard rock o flirtare con il funky, di farsi accompagnare da un coro di bambini (“Stardog Champion”) o di seguire una melodia sofferta per dar vita ad una ballad dai contorni oscuri.

A doverlo rinchiudere in un genere, Apple non può che definirsi un disco hard-rock, in bilico tra anni Settanta e Novanta, tra Londra e Los Angeles via New York, ma ricoperto della patina di tristezza e grigiore di Seattle, che riporta tutto a terra e impedisce di finire nel ridicolo, seppure di autoironia e voglia di sdrammatizzare ce ne sia molta, figlia di Wood e della sua attitudine istrionica, ovviamente. Registrato da Terry Date presso i Plant Studios in California, l’album avrebbe fatto faville qualora fosse stato portato in giro da una band determinata a riempire gli stadi (quali i Mother Love Bone erano) e capace di farlo conoscere al grande pubblico, probabilmente avrebbe perfino riportato in auge certi suoni e fatto nascere a Seattle band con un piglio differente; nessuno può saperlo per certo. Di sicuro, però, possiamo affermare che ancora oggi Apple parla dritto al cuore dell’ascoltatore che ne segua parole e linee melodiche, si lasci prendere dai suoi tanti stati d’animo anche contrastanti e si immerga per un attimo nella visione di Wood e soci. Non ci fossero poi stati l’omaggio Temple Of The Dog (migliore epitaffio si potesse volere per la vita del cantante scomparso) e i Pearl Jam con il loro successo planetario, temo che sarebbe rimasto pane per appassionati, troppo sfrontato e ambizioso per catturare fino in fondo il tardo pubblico grunge, troppo sgargiante per gli amanti dello stile dimesso dei Novanta, uno stile che forse la morte di Landrew ha acuito, spegnendo il sorriso e la voglia di leggerezza dai suoi amici di sempre Pearl Jam, Soundgarden, Alice In Chains e compagnia cantante.

P.S.: Un ragazzo italiano scopre Seattle tramite i Green River, i primi Soundgarden (quelli su SST, la label fondata da Greg Ginn dei Black Flag), le primissime uscite SubPop a metà anni Ottanta, vede i Soundgarden dal vivo davanti a poche centinaia di persone in un club romano e si appassiona della scena di Seattle. Inutile dire che come quello stesso anno inciampa sul debutto dei Mother Love Bone, Shine, se ne innamora e quando il fratello va in gita scolastica a Parigi, come regalo si fa portare una copia di Apple. Nel frattempo è, però, morto Wood e la cosa lo colpisce molto, in fondo quei testi sono diventati la sua colonna sonora, li conosce a memoria e lo hanno anche aiutato in un paio di momenti difficili. In breve, prende l’indirizzo dal cd e scrive una lettera, solo per sfogarsi o magari ricambiare con poco il molto ricevuto dalla band. Una cosa naturale visto che ha una ’zine e viene dalla scena hardcore: lì ci si scrive, si interagisce, per cui che male può fare tentare anche se il disco è su major e chi vuoi che la legga se non qualche impiegato che non sa come passare la pausa pranzo? Passa qualche mese e il postino recapita un pacco e una lettera. Il pacco viene dal management dei Soundgarden e contiene maglie, adesivi, cassette, cappellini, toppe, una sorta di pacco sorpresa a tema Seattle; c’è anche la demo di una nuova band, tali Pearl Jam. La busta che viaggia da sola è, invece, firmata da Eddie Vedder e spiega anche il perché del pacco: la lettera a perdere scritta dal ragazzo è finita in mano agli amici di Wood a Seattle. Se quanto scritto sopra sui Mother Love Bone vi appare poco distaccato o troppo di parte, spero mi scuserete… certe cose lasciano il segno.

Tracklist

This Is Shangrila
Stardog Champion
Holy Roller
Bone China
Come Bite The Apple
Heartshine
Stargazer
Captain Hi Top
Man Of Golden Words
Capricorn Sister
Crown Of Thorns