SCHNELLERTOLLERMEIER, 8/10/2017

Ravaldino in Monte (FC), Area Sismica. Grazie ad Ariele Monti per le foto.

Il signor Meier (il corrispettivo del signor Rossi per i tedescofoni, suppongo) è più veloce (schneller), più grande e più pazzo (toller). Questo pare il gioco di parole dietro al nome scelto da Andi Schnellmann (basso elettrico), Manuel Troller (chitarra elettrica) e David Meier (batteria), che arrivano dalla Confederazione Elvetica. Guardare sempre avanti, non smettere mai di cercare, non affidarsi a certezze acquisite, rischiare, sperimentare; questo il credo di Area Sismica. Ottima la risposta del folto pubblico (i posti a sedere del circolo, fresco di rinnovo, sono tutti occupati e ci sono anche facce giovani e giovanissime) per quest’esordio di stagione, la ventottesima, che coincide con la prima volta in Italia per questo trio composto da musicisti appena trentenni  ma attivo già da più di dieci: Schnellertollermeier, dalla Svizzera tedesca, su Cuneiform Records, a presentare il loro quarto disco fresco d’uscita, Rights, che presto recensiremo. 

Partiamo dalla chitarra, sottile e sgusciante. Un’amica e sodale di concerti “sismici” (e non) dirà a ragione che Troller (un 1986, ma dotato già di grande personalità) la suona come fosse una tastiera: sempre musicale, scava negli spigoli, lavora con loop ansiogeni e ossessivi, sostiene il groove, apre sipari e spazi, sempre con grande gusto ed equilibrio. Ci sono poi una batteria metronomica (a dire il vero forse a tratti un po’ troppo), un basso scuro e suonato con piglio ora rumoristico, ora minimale, a volte in sottrazione, altre perso in alte maree e un po’ narciso, per una musica che non ha i tratti dell’inaudito ma è un meccanismo molto ben congegnato (d’altra parte i ragazzi sono svizzeri, il genius loci vorrà pur dir qualcosa) e ci svela lunghe composizioni che vagano in una terra di nessuno e di tanti al tempo stesso, tra math-rock, sfuriate quasi da hardcore evoluto, l’ipnosi ritmica dei giapponesi Goat, la precisione ossessiva ma claudicante di certo avant-jazz americano e l’ombra dei King Crimson ad annuire sorniona da lontano.

 

L’inizio è emozionante con la suite “Rights”, che apre il disco omonimo: un tic tac di batteria che è – come detto – un meccanismo perfetto e  sottile, armonici di basso, lame sottili di chitarra, acida e sensuale, imprendibile e lieve, a edificare progressivamente una città su travi armoniche e ritmiche, mentre nella seconda parte l’architettura sembra più cubista (molto incisivo il lavoro di Troller con riff, effetti e accenti mai banali). Dopo l’iniziale meraviglia però, i ragazzi tendono a sviluppare un canovaccio riconoscibile e non sempre nitido: una costruzione per strati sovrapposti che partendo da cellule ritmico-melodiche minime via via crea incastri che a volte hanno del prodigioso e fanno muovere contenti la testa, altre invece si perdono un po’ in una complessità che non sempre sa conquistare. Le capacità tecniche della band (risalta sempre il chitarrista, dotato di un gusto e di un’inventiva davvero brillanti e molto comunicativo nel suo modo di approcciare lo strumento) non sono in discussione, la scrittura a volte pare però risentire di qualche piccola ingenuità, laddove non si decide di percorrere una delle tante strade aperte con decisione (vuoi il ritmo ansiogeno à la Goat, disossato e post-umano, vuoi  diavolerie che un Tim Berne in vena di scrivere e non di suonare avrebbe potuto pensare, per citare solo due suggestioni), ma si resta a metà del guado oppure ci si perde in digressioni non sempre funzionali all’economia del brano: non convincono pienamente alcuni momenti più rock, come la fuga psichedelica e un vagamente enfatica che arriva nella seconda parte di “Round”, ad esempio. Una parentesi del genere, fatta da un gruppo rock, sarebbe stata fantastica, per quanto è ben suonata (il batterista qui finalmente scioglie le redini e si libera); in questo contesto, non sembra molto calzante, e riporta a terra invece che elevare. Molto bello piuttosto il momento in cui il basso elettrico resta da solo e con l’archetto e i pedali usati con sapienza ci porta in un oltremondo stranito e straniante. Notevole comunque l’affiatamento tra i tre musicisti, che stanno suonando, è bene farlo presente, per la seconda volta in assoluto dal vivo queste loro ultime creazioni (la prima è stata il giorno precedente, a Lucerna, dove hanno anche concepito questo materiale, nel corso di una residenza).

Molto forte a mio parere (e la comune provenienza elvetica, più che un indizio, è una prova) l’influenza su questo progetto dello zen funk dei Ronin di Nick Bärtsch, capaci di tessere poliritmie miracolose ma al tempo stesso qualche volta di specchiarsi con troppo autocompiacimento. Nell’unico inedito che ci viene proposto, il groove riporta proprio dalle parti del collettivo aperto di Zurigo: un luminoso esempio di funk urbano completamente bianco, senza una goccia di sudore nero. Durante il bis, richiesto a gran voce dall’audience presa benissimo (e giustamente, si tratta di una band che offre uno spettacolo intenso e molto divertente, su questo non ci sono dubbi ) ci viene invece proposto “Riot”, un episodio tambureggiante dal penultimo disco, X (per la recensione vi rimandiamo qui. 

In chiusura di report mi sembra doveroso sottolineare come sia da elogiare ancora una volta il lavoro di un circolo che inaugura la stagione con un gruppo di ragazzi svizzeri nemmeno trentenni e pressoché sconosciuti a queste latitudini e per la settimana dopo propone invece Eugene Chadbourne, nel nome di un’apertura mentale totale e di una cocciuta, coraggiosa, tenace ricerca del bello, una ricerca che ha un forte valore culturale e politico e che oramai è costantemente premiata da una risposta di pubblico sempre molto buona. In una ex casa del popolo nelle campagne vicino Forlì, da ottobre in poi, per un paio di volte al mese almeno, alla domenica succedono cose davvero extra-ordinarie. Abbiamo già dato notizia della programmazione da ora fino a dicembre, se non lo avete già fatto, segnatevi le date (potete guardarle qui),  la domenica vincete l’apatia e non cedete alle lusinghe del divano, una gita all’Area Sismica è una boccata d’aria fresca, sempre e comunque.