Saele Valese: attimi impossibili da replicare

Nell’era delle sponsorizzate sui social, il musicista diventa PR di sé stesso, non dice più le cose come stanno e preferisce applicare il filtro bellezza del telefonino un po’ a tutto. Saele Valese, italiano che oggi vive a Berna, è un’eccezione. Dato che il comunicato stampa rimaneva sul vago, qualche tempo fa ho deciso di intervistarlo, perché il suo materiale mi sembrava buono e volevo farlo conoscere. A domande “esplorative” ha fornito una serie di risposte che non si sentono più da anni, dicendo come prima cosa che il suo disco su Noton (non gli ultimi della lista) è una raccolta di materiale in un certo senso datato, solo parzialmente inedito, che si tratta comunque di primi passi nella costruzione di un’identità specifica (la roba davvero potente deve ancora arrivare, lascia intendere) e che comunque non saprebbe riportarlo dal vivo o, meglio, rivisitarlo, trattandosi di improvvisazioni. Anche riguardo la parte visiva, anziché farci credere che fosse tutto nella sua testa, ha spiegato come si sia mossa anzitutto l’etichetta, con lui a porre qualche condizione.

Se qualcuno vuol sapere la mia, Ivic è un buon disco, ma – come afferma Saele – ancora “solo” promettente. Cosa ci troviamo dentro o a che cosa potremmo accostarlo? Raime di Quarter Turns Over A Living Line (e per certi versi Tooth), The Bug vs Earth, Scorn, certo Vainio più asciutto, Kinetix di Gianluca Becuzzi. Buone atmosfere e – per l’appunto – un linguaggio già coerente e regolato, che ha bisogno solo di esser parlato con una voce ben distinguibile dalle altre. Di conseguenza questo pezzo è il mio modo di convincere le persone a segnare questo nome da qualche parte, perché potrebbe diventare importante. Full stream qui.

Di te raccontano poco, ma penso sia intenzionale. Parliamo dunque di musica: perché il tuo album si intitola IVIC?

Saele Valese: Ivic è il nome di uno dei personaggi di Jean Paul Sartre nel libro “L’età della ragione”, con il quale ho composto musica tra il 2013 e il 2018. Questo disco su NOTON, infatti, non è davvero un album, perché raggruppa semplicemente la musica scritta in quegli anni. Alcune tracce sono inedite mentre altre furono già pubblicate sulla mia etichetta JSMË.

Noton incentra la sua presentazione sul fatto che tu hai utilizzato software per realizzare questo disco, ma senza approfittare delle infinite possibilità di revisione che ciò offre. IVIC sarebbe stato registrato con la filosofia del “buona la prima”. Ho capito bene? Si è trattato di una sorta di improvvisazione? Se sì, perché?

Sì, direi che molte cose furono improvvisate durante la registrazione. A volte, nel processo creativo, ci sentiamo come guidati dal nostro inconscio. Aspettavo quei momenti preziosi, obbligandomi poi a finalizzare e mixare il progetto dal vivo, registrando su cassetta DAT. Così facendo, preservavo e rispettavo quegli attimi per me molto importanti e impossibili da replicare.

Personalmente mi piace il sound asciutto del disco, ascolto molto questo tipo di cose, specie in questi anni, parlo di artisti che esplorano una regione che si trova in mezzo a quelle del dub, del noise e dell’ambient. Attraverso quali strade hai raggiunto il suono molto coeso “esteticamente” di IVIC?

Non saprei risponderti esattamente. In IVIC sono raccolti alcuni dei miei studi giovanili di identificazione attraverso il suono, una sorta di psicoanalisi, dove ho tentato di costruire un mio primo linguaggio artistico. Credo però di vederne solo ora i risultati, nel materiale a cui sto lavorando ultimamente.

Metto questa domanda in relazione alla precedente. Lo stesso artwork dell’album è molto essenziale e immagino che tu abbia detto la tua, per quanto l’etichetta per la quale esci sia a sua volta conosciuta per la grande pulizia delle sue copertine. Da dove origina l’estrema sobrietà del tuo approccio? Perché ti piace lavorare per sottrazione?

Ho sempre incluso fotografie nei miei ep precedenti e ci tenevo molto. NOTON ha un suo stile e una sua linea ma rispetta molto l’artista. All’interno del vinile o cd, si troverà quindi una foto scattata da me qualche anno fa. Per quanto mi riguarda, quella è la copertina del disco.

Sempre a proposito di scelte visive: per i tuoi video hai collaborato con Marcus Heckmann. Anche lui sembra muoversi secondo criteri di semplicità, su grandi direttrici e con pochi elementi. Come lo hai conosciuto e che tipo di discussione avete avuto sul da farsi?

Non ho conosciuto Marcus e non abbiamo collaborato. Carsten (Nicolai, cioè Alva Noto, cioè il fondatore di Noton, ndr) gli ha commissionato il lavoro e il risultato mi è piaciuto, specialmente per il primo singolo.

Non conosco Sylvia Plath se non superficialmente. Lo stesso discorso vale per Francesca Woodman. Dovendo fare un’intervista, ho comunque cercato di documentarmi. Anche dopo questo passaggio, continua a colpirmi soprattutto la frase “you cannot see me from where I look at myself”. Sembra una grande rivendicazione di soggettività e autonomia. Perché senti il bisogno di farla?

Mi è difficile parlare di questo album perché alcuni lavori risalgono a 7-8 anni fa, non so più esattamente come mi sentivo in quei momenti o cosa stessi passando. Nonostante Francesca Woodman sia stata un amore adolescenziale e quindi da tempo esaurito, la frase citata è per me tremendamente attuale.
Ritengo che le parole siano troppo deboli e imprecise e che si frantumino davanti a tutto quello che c’è di irrazionale nell’uomo. Ci si sente spesso fraintesi a causa dell’impossibilità di esprimere sentimenti cosiddetti profondi, originati in un luogo sacro, dove la ragione e la morale perdono i propri valori.
L’opera d’arte, tuttavia, possiede un linguaggio metafisico che scavalca ogni logica, a volte è quindi possibile percepirla ma sarebbe impossibile pensarla.
L’uomo dotato di una certa sensibilità, nell’entrare in contatto con un capolavoro, avverte una profonda attrazione nella quale giace qualcosa di inumano che lo sconvolgerà. Non sarà in grado di poter descrivere quegli attimi d’incanto ma comprenderà di aver scoperto qualcosa in più su sé stesso.

Hai vissuto in posti diversi. Sono scelte legate alla musica? Per suonare ciò che suoni, poterlo fare bene e “crescere” è necessario abitare in certi posti? Siamo tanto “smaterializzati”, ormai, ma conta ancora qualcosa stare a Berlino anziché in qualche regione “marginale”?

No, e spero vivamente che questo mito crolli presto una volta per tutte. Non penso che il luogo in cui vivo influenzi la musica che faccio, alcuni posti possono facilitarne il processo, altri ostruirlo. Vivere in paesi diversi dal proprio è un’esperienza unica e personale, ma se volessimo parlare di crescita artistica, il lavoro da fare è interno, non esterno.
Credo quindi che la solitudine sia essenziale, nella vita come nella creatività, bisognerebbe imparare ad amarla. Non parlo di sentirsi soli ma di trascorrere molto tempo con sé stessi. Riducendo gli stimoli si inizia ad ascoltare il proprio mondo e a sviluppare la fantasia, spesso scoraggiata dalla realtà.
Mi permetto allora di consigliare ai giovani talenti di desistere nel trasferirsi in una nuova città unicamente per fame di successo, piuttosto, evadete dal sonno quotidiano: leggete i classici della letteratura e della filosofia, guardate il grande cinema, ammirate le opere d’arte.
C’è più genio ne “Il Castello” di Kafka che in qualunque club di Berlino.

Il tuo disco esce tra poco. Quali sono le tue aspettative? Speri di portarlo in giro quando sarà possibile?

Nessuna aspettativa, lo dico seriamente. Ho un album quasi pronto, mi piacerebbe pubblicarlo in autunno e avere l’occasione di suonarlo dal vivo. Non ho interesse a proporre o rivisitare il materiale di Ivic anche perché, a dire il vero, non mi rimangono che le cassette DAT.