SABASABA, S/t

A metà strada tra un rito di iniziazione a una qualche divinità ctonia non proprio benevola e una traversata speleologica alla Jules Verne in vena di esoterismo, l’esordio dei tre torinesi per Maple Death Records viaggia lento e vagamente allucinato tra psichedelia oscura e dub trasfigurato. Il richiamo a un immaginario “sotterraneo” è palese sin dall’artwork, e il sound messo in piedi da Tommaso Bonfilio, Andrea Marini e Gabriele Maggiorotto è da qui che sembra partire. Echi e riverberi delimitano cavità in cui si agitano rimbrotti di basso, evoluzioni vaganti di organo, bordoni ipnagogici ed effettistica d’ambiente, che si sovrappongono striscianti in una sorta di flusso distante in penombra. I Demdike Stare che remixano i Coil, e viceversa, o The Haxan Cloak che mette le mani su qualche jam dei primi Almamegretta, giusto per ancorarci a qualche nome. Il contrasto tra questo flusso fantasmatico e l’ossatura scarna ma concreta dei sei pezzi proposti fa sì che l’intero album sembri la colonna sonora di un itinerario rituale a cui l’iniziato si accosta con un certo curioso e malsano piacere, mentre il senso di minaccia è costante ma ondeggia sempre poco al di là della soglia sensibile, rafforzando l’impronta “occulta” del percorso. L’ospite Father Murphy sigilla liturgicamente il tutto in Red Nights prima che l’ultima traccia, a suon di carillon rotti da film horror, getti l’ombra definitiva sull’esito del rito.