SAADET TÜRKÖZ / ELLIOTT SHARP, Kumuska

Preghiere a divinità ancestrali di cui abbiamo dimenticato i nomi, animali mitologici, nenie secolari catapultate in una nebbia tra fine e futuro; musica senza confini quella contenuta in Kumuska, nuovo capitolo della collaborazione tra la cantante turca di origine kazake Saadet Türköz e il multistrumentista e produttore – da decenni nel cuore della scena avant di downtown New York – Elliott Sharp. Nessuna discussione, nessun piano, improvvisazione in purezza per questo lavoro magnetico e sfuggente, come un incontro tra intraducibili rituali e astrazioni nitide e perfette. Spazio, spazio, spazio, devozione, perdizione, pagine di libri sacri, bussole rotte, steppe, deserti dove come sempre, da sempre, aspettiamo i Tartari, passato anteriore, futuro remoto, grammatiche pre-verbali, lingue indicibili, nostalgie siderali, sciamanesimo. La voce canta terre che non sappiamo, fa venire voglia di aprire l’atlante e perdersi nelle geografie, nei nomi: “Semey” (in Kazakistan; da lì la famiglia di nomadi di Saadet migrò verso il Turkestan orientale, una regione dell’Asia Centrale storicamente abitata da popoli turchi, per poi arrivare in Turchia attraverso Indi e Pakistan), Bassopiano Turanico, Altay, Xinjiang, Pamir, Karakoram, Himalaya, Rawalpindi.

Nomi lontani, popoli che impariamo solo ora (Khazari), regni che sconfinano nel mito (il gran khanato, circa 1500 anni fa, ai tempi delle guerre persiano-turche), califfati, luoghi di incontro e di reciproco influsso tra lingue, culture e religioni diverse (islam, cristianesimo, animismo): è come un’immersione in una storia sepolta sotto secoli di terra brulla questo disco, nove tracce dove Sharp si alterna tra clarinetto basso, synth analogico e glissentar, uno strumento a corda senza tasti delle dimensioni di una chitarra ma con undici corde come quelle di un Oud. Il folk imprendibile che già abbiamo amato visceralmente in musicisti preziosi come Širom o Iva Bittová, la babele dei mondi che furono, si riverbera in questa stanza di specchi spoglia e lussureggiante, una casa senza pareti, con finestre che accolgono chilometri e chilometri di cielo, e invitano alla fuga, all’utopia, cantano la diaspora, la fuga, il destino delle umane genti che è il viaggio da sempre. Musica lirica e politica, di un’eleganza selvatica, come un’elegia e una rivolta senza tempo e attualissima, ora che per l’ennesima volta i curdi, un altro popolo senza stato, come tanti di quelli in qualche modo coinvolti in questo lavoro e vivi nel sangue e nella voce di Saadet Türköz, sono perseguitati.