SAÅAD, Verdaillon

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In quella zona grigia cui fanno capo diversi alfieri della moderna drone music, al duo francese Saåad non spetta certo il posto (e l’epiteto) di puristi del genere. Con tutte le implicazioni, positive e negative, che questo può comportare. Prendiamo però le prime, una su tutte la loro partecipazione (a fianco del connazionale Mondkopf) in The Black Ideal, compilation che per molti amanti di certa techno ibrida è già storia, nonostante sia uscita soltanto poco più di tre anni fa su Unknown Precept. E quanto detto valga sia come avvertenza, sia come stimolo. Con il nuovo Verdaillon, Romain Barbot e Grégory Buffier proseguono un discorso iniziato già da diversi anni, che vede nel precedente Deep/Float (Hands In The Dark, 2014) il suo apice in termini d’ambizione e popolarità. Va bene che di mezzo c’è stato il secondo capitolo della collaborazione con il costaricano EUS e l’inglese Postdrome (l’album Different Streams è dello scorso anno), ma è con questo nuovo disco per la parigina In Paradisum che i Saåad tornano a fare ciò che riesce loro meglio: innalzare imponenti composizioni a partire da idee quantomeno singolari. In Deep/Float, ad esempio, destava curiosità il fatto che i brani nascessero dal suono di tre corni giganti posizionati contro pareti rocciose alle pendici delle Alpi, mentre in Verdaillon la principale sorgente sonora è l’organo a canne della chiesa di Notre-Dame de la Dalbade, a Tolosa. E in questo non c’è nulla di nuovo, anzi, la scommessa sta proprio nel riuscire a suonare originali nonostante la miriade di album già esistenti basati sulla medesima situazione.

Va subito detto che i due riescono a sfuggire ai cliché del caso, non tanto trasfigurando il suono e aggiungendo strati di chitarre e voci alle registrazioni effettuate in situ, quanto facendo in modo che l’ascoltatore si senta partecipe dell’intera esperienza. I passi, il pavimento che scricchiola, l’acqua (santa?) che scorre, le campane e il traffico proveniente dall’esterno concorrono alla varietà di un album che altrimenti risulterebbe monolitico, ma soprattutto stuzzicano un sentimento di sorpresa che dev’essere simile a quello provato da Barbot e Buffier alle prese con uno strumento che fuoriesce dalle loro consuete possibilità. Infine, è quasi curioso notare come la caratteristica più stringente dei Saåad – cioè quella capacità di immobilizzare e poi soverchiare il povero sventurato che indossa le cuffie – sia qui resa pienamente nell’unico brano in cui il suono dell’organo diventa davvero palpabile: stiamo parlando della grandeur sfoggiata negli otto minuti finali di “Vorde”, ed è come se tutta la spiritualità prima contenuta sgorgasse fuori senza mezze misure.