ROSETTA, The Anaesthete

Rosetta

I Rosetta hanno sempre avuto dalla loro una scrittura e una tecnica invidiabili, caratteristiche che hanno a tratti sopperito a un linguaggio non proprio originale e che ne hanno accresciuto lo status, così da catalizzare l’interesse attorno al loro nome e alle loro prove in studio. Questo è quanto accade ancora oggi all’interno di The Anaesthete, album di una bellezza formale incontrovertibile, eppure ancora una volta fin troppo contiguo a quanto già detto e scritto nell’ultimo (non ultimissimo) periodo nell’ambito delle contaminazioni tra postcore e post-rock, con parti strumentali oltremodo curate e i classici sali-scendi emotivi, in grado di donare una spinta e il giusto crescendo alle composizioni. Tutto è rifinito nei minimi dettagli e lascia a bocca aperta per l’incredibile vividezza nei colori e nelle sfumature, con botte di pura adrenalina che si alternano a minimali ed eteree partiture dal forte impatto visivo, quasi si trattasse di affreschi. L’unico problema è che non ci sono vere emancipazioni o cambiamenti di prospettiva, tutto gira intorno a un melting pot di linguaggi ormai codificato e vicino a essere un classico. Niente di male, perché qui la qualità è talmente elevata che gli amanti di queste sonorità non potranno che apprezzare, eppure appare davvero giunto il momento per i Rosetta di porsi degli interrogativi per il futuro, in particolare sulla necessità di provocare qualche brivido lungo la schiena che non sia mero frutto della loro bravura, ma si basi sull’imprevisto e sulla sorpresa, perché in fondo senza una reale evoluzione la contaminazione perde di significato e finisce per diventare ciclica reiterazione di cliché. The Anaesthete è il climax di un linguaggio, la sua fotografia artistica e capace di immortalare ogni singolo dettaglio del quadro generale, è disco di incredibile fattura e di pathos travolgente, ma rischia di risultare anche poco vitale e coraggioso, il che è davvero un peccato viste le enormi potenzialità dei musicisti coinvolti.