ROSCOE MITCHELL, 30/5/2017 e 31/5/2017

Doppio live report.

ROSCOE MITCHELL & FRANCESCO FILIDEI, 30/5/2017

Bologna, Chiesa Di Santa Maria Dei Servi.

Chiusura col botto per la ventisettesima edizione di AngelicA, che lungo il mese di maggio ha portato a Bologna (con una puntata anche a Modena per Annette Peacock) nomi del calibro di Wayne Horvitz, Veryan Weston, Phil Minton, Bob Ostertag e molti altri. Cause di forza maggiore ci hanno impedito di essere presenti come avremmo voluto, ma per Roscoe Mitchell non ci potevamo esimere. Risuona ancora forte nella memoria l’eco di quando, nel 2006, avemmo la fortuna di vedere gli Art Ensemble Of Chicago in quel di Piacenza. Uno schiaffo di proporzioni epiche, un live strabiliante, di rara potenza e nitore.

Anche il live in duo con l’organista Francesco Filidei sarà fonte di meraviglia. Molto suggestiva la location, con Mitchell a officiare la cerimonia come un prete laico e in pieno controllo di un’idea religiosa e scientifica del suono, e Filidei molto bravo nel rispondere al geniale musicista afroamericano con vortici sottili. L’entrata dei bassi è da brividi, siamo nel campo della pura improvvisazione, l’atmosfera ricorda a tratti quella di “Vertigo” di Hitchcock con le musiche del grande Bernard Herrmann, l’organo da chiesa offre contrappunto e melodia mentre Roscoe resta guardingo e non tematico. Pensiamo alla cupa ossessività di Ligeti, poi il sassofonista apre e si abbandona al fraseggio impervio che gli (ci) è familiare, ma solo per un breve lampo. Subito infatti si torna su atmosfere lontane, lontanissime dal jazz, su orbite siderali che ci portano in territori ignoti.

Un Bach in acido che trasecola e si riscopre per una fugace parentesi fan dei King Crimson, mentre le spirali diaboliche al sax alto – prodotte grazie alla respirazione circolare – di Mitchell non lasciano un attimo di tregua. Incredibile come, con un solo strumento, il geniale, compassato e distinto signore che abbiamo di fronte riesca ad eguagliare la densità e la capacità di dinamica e movimento di un’intera orchestra: in effetti si avvertono più voci contemporaneamente nel suo salmodiare inesausto, quasi una preghiera per il pianeta morente si direbbe, ma senza compassione. Una musica austera, mistica, potente e straordinariamente evocativa. Da brividi. L’organo indugia e ci si perde nell’estasi di un drone che sa di Terry Riley e di sterminate steppe asiatiche. Libere conversazioni dense, imprendibili, rigorose eppure profondamente libere, glaciali ma non fredde, intelligentissime, mai noiose o distanti. Siamo di fronte a uno dei compositori più importanti di tutto il Novecento, non solo nella musica afroamericana: dalla furia di “Nonaah” alle astrazioni per ensemble a geometria variabile restano intatti la foga scientifica e l’amore puro per la scoperta delle profondità nascoste del suono. “Sound” si intitolava del resto il suo leggendario album del 1966. E ancora una volta, grazie anche all’apporto molto incisivo e mai retorico di Filidei all’organo, l’incontro con questo esploratore della suono-sfera è prodigioso: come percorrendo un nastro di Möbius che non finisce mai, alla fine della lunga improvvisazione i due ci riportano nei mondi dell’inizio, col sax a insistere tra sussurri e sbuffi e l’organo a mettere le virgole e a dare corda allo scalatore Mitchell per fargli raggiungere cime sonore ancora non conquistate.

Roscoe Mitchell, Thomas Buckner, Gianni Trovalusci, Nicola Baroni, Orchestra del Teatro Comunale Di Bologna, 31/5/2017

Bologna, Teatro Auditorium Manzoni.

Meno emozionante e riuscita, pur regalando a tratti ottima musica, la serata del 31, con l’orchestra del Teatro Comunale a eseguire, con l’apporto di valenti solisti quali Nicola Baroni al violoncello e Gianni Trovalusci al flauto, composizioni di Roscoe Mitchell e di Sylvano Bussotti. Come dice saggiamente il direttore del Teatro, un pezzo può essere un luogo, un campo di possibilità. Dopo due composizioni di Bussotti di cui possiamo senz’altro constatare la pregevole fattura, ma che a dire il vero non ci toccano più di tanto, ecco quelle per orchestra di Mitchell: echi di Stravinskij, ansie novecentesche a incontrarsi con la fregola del jazz, per una musica nuovamente inafferrabile e indefinibile. Le conversazioni in questo caso non sono narrative, ma liberissime e vertiginose divagazioni dove l’intera orchestra non produce un solo tema che si possa ricordare, ma si addentra nelle infinite possibilità discorsive, armoniche e dinamiche della musica classica. Grammatiche molto complesse ma capaci di apparire fluide si alternano ad asprezze talvolta meno digeribili, laddove il canto di Thomas Buckner, à la Demetrio Stratos ma senza grande intensità emotiva, non convince molto. Sono trasmissioni di radio distanti quelle che ascoltiamo, e Roscoe, prima di salire come solista sul palco, le ascolta con noi, seduto in prima fila, a occhi chiusi, perso nei misteri del suo stesso suono.

Grazie allo staff di Angelica e a Margherita Caprilli per le foto.