ROOTS MAGIC, Take Root Among The Stars

Metti radice tra le stelle. Questo l’invito e il credo a cui obbediscono Roots Magic, da Roma al mondo, sulla prestigiosa Clean Feed di Lisbona, una delle etichette col radar più attivo per quanto riguarda il jazz oggi. Il quartetto, affiatato e ispiratissimo, mastica ancora una volta un repertorio saporito e variegato, che in questo terzo disco mette insieme il blues di Skip James con l’ipnosi reiterativa e obliqua di Phil Cohran, Sun Ra e Charlie Patton, Ornette Coleman e Kalaparusha McIntyre (la vibrante “Humility In The Light Of Creator”). Musicofili e musicomani prima che musicisti, Alberto Popolla (clarinetto e clarinetto basso, oggetti, nostro collaboratore con la rubrica Weird Tales), Errico De Fabritiis (sax alto e baritono, armonica), Gianfranco Tedeschi (contrabbasso) e Fabrizio Spera (batteria percussioni, zither, già con i magnifici Ossatura). Groove, groove, groove, a partire dall’incipit con il tema a presa rapida di Cohran (invidio chi non ha ancora ascoltato un disco come On The Beach, a nome Phil Cohran & The Artistic Heritage Ensemble; gli si apriranno mondi) impreziosito dal vibrafono di Francesco Lo Cascio che ci porta in un’Africa ancestrale e avvolta da un alone di stupore psichedelico. L’idea attorno a cui ruota il progetto resta la medesima di sempre, un modo acuto e vibrante di rendere omaggio ad una certa tradizione, quella più conscious, facendo incontrare a un crocicchio (dove sicuramente si sarà fermato ad arrotolarsi una cicca un qualche diavolo) il blues (sentite la nuova veste data all’immortale “Devil Got My Woman”, quasi un tema da second line di New Orleans) e il free; un Giano bifronte, dunque, dove convivono rituali e protesta, ieri e domani, ancient to the future, come diceva l’Art Ensemble Of Chicago. Musica che trabocca di un gospel metafisico e cosmico, che tenta, riuscendoci, di aprire connessioni, di spalancare mondi, di mettere in contatto questo presente pallido e laico con il fuoco delle utopie: blues della diaspora, scheletri di melodie innodiche, immortali come canovacci di poemi epici su cui i quattro, novelli rapsodi, annodano e tessono ancora, inesausti e combattivi, i fili di una storia che viene e andrà lontano, perché, come diceva Rahsaan Roland Kirk, mica lo spezzi un do. Uno dei migliori gruppi che abbiamo oggi in Italia (non sarà un caso se questo è già il terzo disco su Clean Feed). Regalate questo disco ai talebani del be bop, a chi è rimasto prigioniero delle dorate gabbie del Real Book, agli amici che dicono che il jazz non è divertente, a chi vuole ballare (di questi tempi, necessariamente, a distanza di sicurezza), alle morose che si lamentano della vostra musica malmostosa e introversa. C’è un mondo qui dentro, e là fuori, e per nostra e vostra fortuna – come dimostrano dischi come questo – il jazz è sempre in movimento, anche quando si volta verso il passato (se non lo fa come puro esercizio di bella calligrafia) per reinventare il proprio presente, e suggerire il suo stesso futuro. Una lezione di Storia in otto capitoli per un gruppo maiuscolo, da esportazione.