ROBERTO MARES, No Place On Earth

L’acidità distorta e allarmata di “Esodo [part I]” introduce in modo inaspettato No Place On Earth, il nuovo lavoro di Roberto Mares, musicista e sound designer già apprezzato nel precedente Something’s About To Happen del 2023.

In questo album Mares conferma il suo interesse per un suono ibrido e contaminato da spezie multiculturali, circoscritto all’interno di una produzione di alto livello per precisione, pulizia e resa timbrica. In tutto questo si avverte ora un malessere soffocato, un persistente disagio provocato non dal caleidoscopico flusso interiore messo in musica, bensì da un mondo esterno impazzito e disorientante che induce a rifugiarsi nella creazione artistica come unica terapia possibile per l’annientamento emotivo.

In quest’ottica l’iniziale isteria timbrica della prima traccia pare un’eco lontana a cui prontamente si sostituisce un’atmosfera placida dalle tinte post new-age. La scrittura di Mares è narrativa, densa di umori chill jazz, fantasmi post-rock e pulsazioni sintetiche. Il suono è alchemico ma non criptico, elaborato ma non sofistico, carico di un pathos performativo che è irrinunciabile riappropriazione di un’identità culturale lacerata dalla volgare attualità (la seconda parte di “Esodo”).

Più abrasive e sedimentate le tessiture vocali di “La Direction Est Claire”, anche qui un distillato multistilistico immerso nella gestualità interpretativa della voce di Merel Van Dijk, a cui si contrappone un sofisticato costrutto oscillante timbricamente e attraversato da intensi flussi emozionali.

Alla statica rigidità di molto post-ambient Mares pare preferire una libertà espressiva svincolata dall’aderenza a specifiche nicchie stilistiche: le numerose influenze (post-rock e fusion tra le altre) si avvertono ma sono state sottoposte ad un lungo processo di assimilazione e ricostruzione (“Zero To Power Of 10 Equals Zero”).

Ospiti illustri, oltre alla già citata Van Dijk, Alessandro Sgarito e Flavio Ferri alle chitarre (e relativi trattamenti), Antonio Tonietti alla tampura, le percussioni di Igor De Paoli, il basso di Matteo Visigalli e – nella conclusiva e commossa “Ghost Track” – Elena Strada, Julia Kent e Massimo Fantoni.

Un vero e proprio ensemble le cui performances si integrano al lavoro compositivo in un contesto di condivisa fascinazione reciproca. Non si avvertono strappi né forzature; l’insieme suona coeso come se stessimo assistendo ad una improvvisazione collettiva e questo è tanto più sorprendente se si considera che tutto è avvenuto in modo epistolare, attraverso l’ascolto e lo scambio di materiale audio.

Partecipazione e condivisione, qualità tristemente dimenticate da una società ancora preda dell’odio, della sopraffazione e della violenza, con gli artisti che rispondono nell’unico modo che conoscono: componendo dischi come No Place on Earth.